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Epoche. Libertà, mia libertà

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«Più di un boomerang non torna. Sceglie la libertà!» (Stanisław Jerzy Lec, 1909-1966)

«Era di primo mattino, e il sole appena sorto luccicava tremolando sulle scaglie del mare appena increspato. A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo…». Questo l’incipit de Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach (1970). Un libretto di 93 pagine che suggestionò una generazione.

In Italia, dopo che negli Stati Uniti erano state vendute oltre due milioni di copie, giunse nel 1973 annunciato da lanci di questo tenore:

«Il best-seller del secolo. Un libro che rimarrà nel profondo di tutti noi».

«Ostinatamente individualista, avverso ad ogni tabù: Jonathan Livingston, il personaggio più straordinario della narrativa contemporanea, protagonista di un successo senza precedenti».

«Negli Stati Uniti un vescovo l’ha accusato di superbia. Per molti è un “guru” per altri il trionfo dell’individualismo. È il gabbiano Jonathan Livingston. Bandito dal gruppo per troppa sete di perfezione, il gabbiano sfida pericolosamente l’ignoto col solo strumento che possiede: il volo. Un racconto-immagini di straordinaria freschezza, una suggestiva iniziazione alla vita adulta».

Tutto ciò non poteva non avere effetto su un ragazzino intorno ai quindici, sedici anni, con gli ormoni in fiamme e la mente rutilante di sogni e progetti.

Più ristretto è l’orizzonte che percepiamo, maggiore è la voglia di superarlo, di allargare la visuale. Di spiccare il volo. Alle ristrettezze oggettive di quella mia ovattata infanzia-adolescenza, di cui oggi resta solo il retrogusto più dolce, contrapponevo il bisogno di andare via. Lontano. E chi meglio di un gabbiano poteva essere simbolo di quest’ansia?

Il gabbiano è l’essere vivente più fortunato che esista. Vive infatti, ma soprattutto vola, ai confini tra due infiniti: il cielo e il mare. Già il suo nome è un inno alla libertà: gabbia no!

Risparmiai così la paghetta qualche settimana, per racimolare le tremila lire necessarie a comprarmi la sesta edizione Rizzoli, quella del febbraio 1975. Un libretto molto curato, con le fotografie di Russell Munson a completarne la magia. Indimenticabile la sequenza realizzata su fogli trasparenti, sì che è possibile immaginare tutte le fasi del volo di un gabbiano elegante e libero.

La storia di Jonathan Livingston si può riassumere, con quel tanto di distacco e scetticismo, attraverso le parole di un giornalista che lo recensì alla sua uscita: «la favoletta, o come altro la si voglia chiamare, è nota. Sotto un cielo troppo azzurro, poco intonato alle pessimistiche previsioni degli ecologi, in una età fuori della storia, il gabbiano Jonathan Livingston cresce con la passione del volo. A differenza dei propri simili, che lo bandiranno indispettiti e gelosi, costringendolo a una vita di esilio sulle scogliere remote, egli non accetta di fare delle sue belle ali semplicemente uno strumento. Ignorando le materiali preoccupazioni degli altri gabbiani, che trascorrono le giornate a caccia di cibo, Livingston si libra nei cieli più alti. Si esercita in ardimentose picchiate, tonneaux e altre acrobazie, che Bach descrive con una competenza a volte compiaciuta quasi raccontasse, in presa diretta, le proprie esperienze». [1]

Dunque siamo per caso di fronte a pagine «piuttosto aeree e nel complesso inconcrete, [che] non hanno certo la vigorosa sostanza romanzesca di Via col vento o, nell’ambito sempre della letteratura d’intrattenimento, la scorrevolezza di Love story»?

C’è poco da fare e poi la vita lo dimostra col passare degli anni. Ci sono persone concrete che danno un peso ed un valore ad ogni cosa che fanno e altre che restano incantate sul bagnasciuga a fissare l’infinito. Le prime misurano ogni loro azione, calcolano ogni minimo passaggio sempre attente ad imboccare le strade più convenienti, motivate unicamente alla raccolta degli interessi e dei dividendi da mettere in cascina. Un’ansia da accumulo che non conosce fine. Le seconde si lasciano semplicemente attraversare dalla vita in maniera del tutto disinteressata, guidate solo dalla meraviglia di ogni giorno, di ogni cielo inquieto o di mare mosso e alla ricerca incessante di sprazzi di felicità.

Si racconta in rete che John Lennon da bambino, quando a scuola gli domandarono come volesse essere da grande, rispose: “Felice”. I maestri dissero che non aveva capito il compito ed egli rispose che forse loro non avevano capito la vita.

Ecco, è a questa razza di persone che il gabbiano Jonathan Livingston toccò il cuore.

«Per la maggior parte dei gabbiani, volare non conta, conta mangiare. A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo […] Oltre che del cibo un gabbiano vive della luce e del calore del sole, vive del soffio del vento, delle onde spumeggianti del mare e della freschezza dell’aria».

Come sempre, in quei mesi di “realismo impegnato”, non mancarono anche le solite critiche negative dei soloni di turno che, come sempre, non contribuirono per nulla a sbiadire il successo al botteghino di quel romanzo e la forza di quella storia: «Dietro la vicenda di questo volatile parlante, vagamente antropomorfo, che si trasfigura in una sorta di maestro o di mistico guru, l’autore adombra una sua ascetica quanto casereccia filosofia della vita. La quale, in poche parole, porrebbe come fine la realizzazione di se stessi e come mezzo il continuo perfezionamento delle proprie qualità naturali: messaggio estremamente ambiguo, che si adatta tanto all’irrazionalismo degli hippies quanto ai più grigi ideali dell’uomo della strada» [2].

Risultava però difficile anche a questi critici eruditi spiegarsi certe affermazioni da parte di autori al di sopra di ogni sospetto «[il libro] Sembra molto semplice, persino banale eppure ha suggerito a Ray Bradbury [3] un commento come questo: “Mi ha fatto volare e mi ha fatto sentire giovane. Per entrambe le cose gli sono profondamente grato”» (Stampa Sera, 19 dicembre 1975).

Ora io non sono qui certo a sostenere che Il gabbiano Jonathan Livingston di Richard Bach sia un capolavoro assoluto da accostare ai grandi classici della letteratura. Nulla di tutto ciò. Ma vorrei sottolineare come certe opere, per quanto apparentemente leggere e ruffiane, possano essere per taluni uno stimolo, possano rappresentare un paletto in più a tracciare il sentiero tortuoso della vita. E non c’è insegnamento più alto di quello di provare a trasmettere ad un ragazzino il senso e la brama di libertà; il piacere di mettersi alla prova, di alzare l’asticella per raggiungere un nuovo obiettivo apparentemente impossibile e non necessariamente riconducibile ad una gretta contabilità ragionieristica.

Sulla scia del successo editoriale del gabbiano Jonathan Livingston venne prodotto anche un film per la regia di Hall Bartlett che, nonostante un encomio al Festival di Taormina nel luglio 1975, due nomination agli Oscar e un Golden Globe, fu sostanzialmente un flop. Di quel film si ricorda forse la colonna sonora composta dal grande Neil Diamond, quello di Song sung blue (1972) e September morn (1979) scritta con Gilbert Bécaud (1927-2001).

Jonathan Livingston dunque simbolo di libertà. Libertà, libertà. Quanto ci siamo riempiti e ci riempiamo la bocca ogni giorno con questo termine: «non c’è democrazia senza libertà. Non c’è libertà senza verità…» e forse allora il volo di un gabbiano può esserne la sintesi più sublime: incomprensibile nella sua perfezione.

Ma la libertà, soprattutto quando si hanno quindici anni o giù di lì, viene messa a rischio molto facilmente e ahimè, viene tradita in men che si dica, in nome di un sentimento ugualmente immenso… l’amore.

«Libertà risali a ieri ma ricordo a malapena ch’eri tutti i miei pensieri il mio pranzo e la mia cena. Libertà mia sola amica quando avevo tutto e niente e credevo che la gente fosse tutta amica mia. […] libertà dei giorni andati io non ti ritrovo più… mia libertà. Chissà se è stato un grosso errore buttarmi a pesce nell’amore […] mia libertà che brutto guaio che è l’amore… mia libertà» (Claudio Baglioni, Mia libertà, 1971)

Ma questa è tutta un’altra storia…

Gabriele Paradisi

Note

[1] Antonio Debenedetti, Come viene fabbricato un best-seller. Via col gabbiano, La Stampa, 20 aprile 1973.

[2] Antonio Debenedetti, cit.

[3] Ray Bradbury (1920-2012) è stato uno dei più grandi scrittori di fantascienza del secolo scorso. Tra le sue opere maggiori vanno ricordate Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1953).

 

redazioneBonVivre

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