La Padova dei misteri


Add to Flipboard Magazine.

renzo dionigiFantasmi, ninfe e spiriti popolavano il territorio patavino già ancor prima che si sapesse dell’esistenza della Scozia. Ma in questa terra esistevano anche le anguane, i mazaruò, i santi e i miracoli, la mitologia greca e latina, i diavoli e i pentiti, i misteri d’amore, senza dimenticare draghi e orchi. Ancora: oggi è possibile incontrarli là dove le leggende raccontano delle loro apparizioni.

Iniziamo il nostro inconsueto percorso partendo da una delle più note opere di Giotto: la Cappella degli Scrovegni. Se c’è stata una famiglia la cui fama sopravvive da secoli nonostante l’estinzione degli eredi è proprio quella degli Scrovegni. Forse fu per espiare i peccati del padre Reginaldo, ritenuto da Dante usuraio e perciò piazzato all’Inferno nel girone dei violenti, ma più probabilmente per esaltare il proprio ruolo politico e il proprio attaccamento alla città che lo aveva esiliato, che Enrico Scrovegni fece erigere la cappella oggi famosa in tutto il mondo per lo stupendo ciclo affrescato da Giotto. Un recente approfondito studio astronomico ha permesso di stabilire che il giorno di Natale la luce del sole – attraverso le finestre della cappella – effettua un’escursione particolarissima, che dalla porta d’entrata, dove faceva il suo ingresso la famiglia Scrovegni, si trasferisce poi sull’altare e sulla rappresentazione della Natività. Allo stesso modo la luce si comporta in relazione a tutto ciò che riguarda la Madonna, cui è dedicata la chiesa (il cui nome completo è Santa Maria dell’Arena): il volto di Maria viene illuminato grazie a dei fori l’8 settembre, giorno della sua nascita, e il 25 marzo, ricorrenza dell’Annunciazione.

Le leggende di Sant’Antonio

Sui miracoli e sui poteri dell’amatissimo Santo taumaturgo nato in Portogallo ma padovano d’adozione si potrebbe scrivere a lungo. Basti ricordare le particolarissime reliquie che si conservano nella basilica che la città gli ha dedicato: il suo mento e i suoi capelli, ma soprattutto la sua lingua e le sue corde vocali, che sono rimaste incorrotte nei secoli. Innumerevoli e spettacolari sono i miracoli compiuti da lui in vita: fece parlare un neonato perché scagionasse la madre accusata ingiustamente d’adulterio, riattaccò il piede a un mutilato, resuscitò un giovane perché difendesse il padre accusato di omicidio, ridiede la vita a una ragazza e a un bambino annegati, spezzò una pietra con un bicchiere di vetro per convertire un eretico. Fra tutti, famoso è quello compiuto al funerale di un avaro. Ricordando le parole delle scritture “dov’è il tuo tesoro lì è il tuo cuore”,  fece aprire il petto dell’uomo e fu trovato vuoto. Il cuore, secco e avvizzito, stava invece tra gli ori che l’uomo aveva troppo amato.

I misteri del Caffè Pedrocchi

Secondo la tradizione, quando Antonio Pedrocchi fece iniziare gli scavi per dotare di una ghiacciaia sotterranea il suo celebre caffè, vi scoprì un idolo d’oro d’epoca romana e se ne impadronì. Ma Antonio Pedrocchi era un uomo generoso e distribuiva parte della sua ricchezza a beneficio dell’intera città e così nessuno ebbe mai voglia di denunciarlo. In breve tempo il Pedrocchi divenne il caffè dei letterati e degli artisti studenti, accademici e uomini politici. L’importanza storica del locale è anche data dal fatto che l’ 8 febbraio 1848, il ferimento al suo interno di uno studente universitario diede il via ad alcuni dei moti caratterizzanti il Risorgimento italiano e che sono ancora oggi ricordati nell’inno ufficiale universitario. Vi si pubblicava anche una gazzetta, fondata tra gli altri da un giovane studente, Guglielmo Stefani che più tardi divenne il fondatore della prima agenzia di stampa d’Italia. In realtà sotto al Pedrocchi vi sono probabilmente le rovine di quello che fu il foro di Patavium romana. Alcune colonne e altri resti architettonici infatti, furono rinvenuti durante gli scavi per la costruzione del celebre caffè e ora sono esposti al Museo Civico. Il piano superiore o “piano nobile” è articolato in otto sale, ciascuna decorata con uno stile diverso: etrusca, greca, romana, rinascimentale, ercolana, napoleonica (o Sala Rossini), egizia, moresca. La chiave di lettura di questo apparato decorativo può essere quella romantica di rivisitazione nostalgica degli stili del passato. Non è esclusa però una chiave esoterica o massonica visto che lo stabile fu progettato da Giuseppe Jappelli, aderente alla Massoneria fin dal 1806 e convinto sostenitore degli ideali illuministi.

 

 

Francesco Petrarca: un riposo senza pace ad Arquà

Nello splendido borgo di Arquà, tra i Colli Euganei, l’illustre poeta decise di trascorrere gli ultimi anni della sua vita e lì trovò la morte nell’anno 1374. Per suo volere, fu dapprima sepolto nell’antica chiesa di Arquà ed in seguito nel bel sarcofago in marmo rosso che ancora oggi s’innalza al centro del sagrato della chiesa stessa. E’ noto che nel corso della storia furono effettuate numerose violazioni dell’arca sepolcrale: nel 1630 furono trafugate le ossa di un braccio e nel 1843 fu asportata una costola, reinserita poi qualche anno dopo. Alcuni decenni più tardi durante alcuni studi antropologici sulle ossa e sul cranio, quest’ultimo a contatto con l’aria si frantumò rendendo impossibile, per l’epoca, qualsiasi indagine. Il “martirio” delle spoglie continuò quando alla vigilia della seconda guerra mondiale le ossa furono trasportate a Venezia per essere meglio protette e poi riportate ad Arquà a fine conflitto.  Nel 2003 un gruppo di esperti dell’Università di Padova effettuò una ricognizione scientifica per verificare lo stato di conservazione delle ossa, con l’intenzione inoltre di poterne ricostruire il volto grazie alle moderne tecniche computerizzate. Immenso fu lo stupore generale quando le analisi stabilirono che mentre le ossa del corpo erano sicuramente quelle autentiche di Francesco Petrarca, il cranio era quello di una donna. Dove sarà ora il cranio del Sommo Poeta?

 

 

Gli orridi spettri di Monselice

Sarebbero ben tre i fantasmi che a Monselice animano le notti del castello fatto riedificare dal tiranno Ezzelino da Romano sui resti di una fortezza più antica: quello di Avalda (o Ivalda, secondo altre cronache, la sua amante), quello di Jacopino da Carrara signore di Monselice, e quello della sua amante Giuditta. Avalda comparirebbe vestita di bianco, con l’abito grondante di sangue. Quest’ultima, in vita non ebbe nulla da invidiare alla crudeltà di Ezzelino, dal quale aveva ricevuto in dono il castello. Non esitava infatti a circondarsi di bellissimi giovani amanti, che faceva crudelmente uccidere tra mille torture, subito dopo aver soddisfatto le sue brame di lussuria. Avalda praticava le arti della stregoneria e della negromanzia, e aveva dimestichezza con l’uso del veleno. A nulla le valsero però quando il tiranno si stancò di lei. Scoperti i suoi turpi traffici la fece uccidere da un sicario, proprio nel castello in cui ancor oggi vaga insanguinata, in cerca di una pace che non può trovare. Jacopino Da Carrara appare invece con un incedere lento per i corridoi, trascinando i suoi passi incerti con l’aiuto di un bastone. Nominato signore di Padova il 22 dicembre 1350 assieme allo zio Francesco, fu da questi rinchiuso nel castello. Dopo diciassette anni trascorsi senza poter uscire, per lui fu decretata la morte per fame, e le sue urla raccapriccianti furono udite per molti giorni, fino alla fine. La sua amante, Giuditta, che fino all’ultimo fu tenuta all’oscuro del destino dell’uomo, vaga ancora oggi attorno al castello e nel buio della notte chiede ai passanti notizie del suo Jacopino.



Devi essere registrato per inviare un commento Entra o registrati