SPLASH TV. L’arroganza comunicativa e il dispotismo tecnologico


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Penso che rimarrà alquanto indimenticabile e simbolica dei tempi in cui viviamo la scena al serale di Amici di due settimane fa con Dustin Hoffman in piedi ad applaudire Alessandra Amoroso, la baby-cantante vip di Lecce della  scuderia della De Filippi, che con le sue solite forzature di gola e le lacrimucce isteriche aveva appena finito di cantare. Dustin Hoffman, l’icona del giornalismo di inchiesta nel film Tutti gli uomini del presidente, l’attore pluridecorato con gli Oscar, indimenticato interprete dell’autistico Rain Man, proprio lui, si è alzato dalla poltroncina e in una improbabile, inattesa standing ovation ha omaggiato di applausi a scena aperta la rampolla della Maria nazionale. Notoriamente sono bravi gli americani a far sentire al top il padrone di casa, e quanto contano i cachet a cinque zeri per innescare davanti al pubblico di mezz’Italia dimostrazioni di sussiego e savoir faire. Noi poveri provinciali della televisione, avvolta nella polvere di vecchi palcoscenici, pensiamo ancora che i big d’oltreoceano siano lì a “onorare” per davvero le nostre qualità artistiche e manageriali, mentre sono solo il tappo d’oro messo su una bottiglia di latte scaduto per farlo sembrare nettare degli dei.

Ma il problema non è solo da parte della signora Costanzo costruirsi il santino della conduttrice-guru che difende le giovani generazioni, l’amore, la buonafede e il talento a tal punto che si vuol far credere che le star a stelle e strisce vengono a inchinarsi al cospetto di cotanta scintillante virtù catodica. Il punto è che sono al collasso tutti i tradizionali indici di valutazione della qualità e del merito, sono stati sovvertiti tutti i parametri estetici, artistici, morali della nostra tradizione occidentale, e trasformati in piattaforme pubblicitarie, operazioni di consenso, logiche di superficie, antropologie minimali e speculative. Se un personaggio dalla fama luminosa e dal carisma inoppugnabile come Dustin Hoffman quasi si genuflette di fronte a una ragazzina che, seppur brava, ha galassie di esperienze e di numeri che la separano da lui, si avverte qualche eccesso di troppo, un lezzo mercenario, una volontà trasognata, un istinto di malafede su cui certa televisione e certi personaggi  scorrazzano senza pietà.  Non si tratta della cultura “bassa” che compete alla pari con la cultura “alta”, come si è sempre sostenuto dalla Pop Art in poi. Qui c’è una mistificazione di fondo, un nucleo malato che libera metastasi di non-senso all’interno delle quali ci mancano i giusti riferimenti, le giuste graduatorie, le giuste coordinate per creare rapporti, confronti, crescite, e perché no, sane sconfitte. Invece tutto richiama tutto, tutto si paragona con tutto, e ciò che merita adorazione finisce nel fango o nella più banale delle compromissioni, mentre ciò che meriterebbe un rapido oblio si guadagna in pochi istanti di follia da tele-voto l’empireo e l’eterna memoria.

Lo Spettacolo è diventato, insomma, mai come negli ultimi anni, la miniera inesauribile del possibile. Ma rispondendo a una strategia di erosione e non di eros, di assurdo e non di assoluto, di autoreferenzialità e non di autorevolezza, men che meno di autorità. Dice il grande filosofo Mario Perniola in Miracoli e traumi della comunicazione: “I criteri della valutazione sono arbitrari e molte volte non pubblici, i valutatori sono segreti e le prove sono contraffatte….siamo sempre nel quadro dell’”effetto che fa”, non delle sue premesse, né delle sue conseguenze”. E ancora: “l’arroganza comunicativa e il dispotismo tecnologico provocano uno strano effetto: la scomparsa dell’opposto, del differente, dell’altro e la difficoltà di trovare strumenti concettuali (prima che politici) per opporsi a una situazione di oppressione nella quale siamo intrappolati e della quale ci sentiamo nello stesso tempo complici”.

Se poi si unisce il campo televisivo a quello più squisitamente commerciale degli oggetti e delle merci da piazzare al grande pubblico, l’esito ne risulta nefasto oltre che amplificato. Potrà infatti anche far sorridere il Garibaldi che, dominando da un colle l’assetto militare delle sue “camicie rosse”, col semplice invio di un sms sui portatili di ciascun soldato, ne scompagina prima le linee, ridefinendole poi come una sorta di evoluzione da majorette ante litteram. Potrà essere “geniale”, dal punto di vista dell’advertising, anche solo immaginare che l’eroe dei due mondi abbia riunito l’Italia non per dare corpo e realtà agli ideali risorgimentali ma semplicemente perché, così facendo, la mamma potesse telefonare lungo tutto lo Stivale con tariffe agevolate. Così come sicuramente strappa più di una smorfia di ironica partecipazione l’idea che Cesare si sarebbe potuto salvare dalla premeditata crudeltà dei suoi congiuratori col morbido click sulla tastiera di un cellulare che lo avvertiva della cospirazione in atto. Ulteriore conferma che siamo abituati ad una sistematica profanazione e all’inabissamento di ogni significato e di ogni aura, alla mercificazione di ricordi, memorie, biografie, dell’eccellenza delle gesta come dell’enigma dell’esistenza. Su tutto questo la pubblicità, i reality, i talent-show, l’informazione mummificata, il design delle coscienze stendono un manto dolciastro di risatine, stereotipi, bizzarrie e vanità. L’Hoffman osannante assieme alle versioni plastificate di Garibaldi e Cesare sono le ultime vittime di un polpettone indigesto che omologa e distrugge ogni differenza. Ma Cesare preferirei studiarlo ancora nel fragore dei pugnali e delle iracondie. E Garibaldi nell’audacia pre-elettronica di una pattuglia di valorosi disperati a caccia solo di libertà.

Carmine Castoro

 

 



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