Le “basse seduzioni” del sensazionale


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Per capire come la moderna immagine tecnicizzata (televisiva, pubblicitaria, virtuale, informatica) non appartenga più ad alcuna cosmologia (sacra o libertaria) e mostri tutta la sua impotenza anche come estensione della realtà, come sua riproduzione e raffigurazione, si può recuperare la lezione contenuta nel saggio Del tragico di Karl Jaspers, opera pubblicata nel 1952, nel pieno di un Novecento che ancora trovava validi spunti di speculazione nelle analisi fenomenologiche e nello studio della “coscienza”, e quando ancora il cosiddetto “stadio dello schermo” era solo una nefasta profezia di intellettuali apocalittici spalmata su un futuro non misurabile. Eppure già è pienamente sviluppata in quelle pagine  l’idea che l’immagine possa scindersi dal dato reale, assumere una vita autonoma rispetto al movimento della storia, diluire o esorcizzare del tutto l’angoscia dell’indeterminato e di quell’infinita libertà che ci appartiene, e ri-totalizzarsi separatamente come un corpo concettuale che esercita il suo potere rassicurante sulla natura e i comportamenti dell’uomo. Dice il filosofo tedesco facendo un excursus delle forme d’arte aperte al popolo e alla sua “educazione”: “…ma poi l’opera del poeta e la partecipazione del pubblico si ridussero a mero spettacolo. Una volta scivolati nel puro divertimento buono per tutti, ogni serietà si perde in un semplice gusto del sensazionale. E’ una cosa d’importanza essenziale ch’io non mi limiti a contemplare, a ricrearmi ‘esteticamente’, ma che partecipi personalmente all’azione, che riferisca e porti a compimento in me stesso la sapienza che scaturisce dalla rappresentazione”. Sembra di stare nell’epoca dei reality, della finta drammatizzazione degli eventi, del “patetico” e del “sentimentale” – categorie interpretative ben chiare all’autore – che rivestono di una patina oleosa le mutazioni tele-visive dell’esistente, i programmi di intrattenimento di massa, e invece siamo a soli 16 anni dall’avvio delle trasmissioni della BBC in Inghilterra e a 13 dal battesimo dell’americana NBC. Sembra che Jaspers abbia ruminato già centinaia di puntate del Grande Fratello o che le sue orecchie soffrano dell’insopportabile can can acustico dei media intrecciati fra loro e tutti pervasi da un universo simbolico di rifugio o di copertura delle ferite più originarie dell’essere umano. In Genio e Follia, molti e molti anni prima, nel 1922, aveva già parlato delle “basse seduzioni” del sensazionale come di una spirale involutiva e mimetica che ci spinge a un finto rapporto immediato con le cose, a una finta ebbrezza dionisiaca dell’arte, ad un aprirsi della cultura “alle cose più estranee, basta che appaiono autentiche e vitali”, come se, in luogo della temporalità, della radicalità, della messa in discussione del tutto e del folle inventare, un incipiente mercato della distrazione e della comunicazione solitaria avesse collocato per sempre un cascame di menzogne, apparenze e belletti linguistici.

Questa “paralisi dell’attività esistenziale” è direttamente proporzionale alla potenza e al diletto che le immagini sembrano aver acquisito in una irredimibile scissione dal mondo reale e in una immediatamente successiva coagulazione in una grammatica simbolica che non ha più nulla di quella dimensione tragica e metafisica che dovrebbe incalzarci sul chi siamo, cosa proviamo, cosa vogliamo costruire e per quali fini. Il campo d’azione di tutto questo è l’immagine.

“La coscienza tragica non è un assistere indifferente, soltanto intellettivo. E’ un prendere conoscenza, in cui io stesso mi trasformo, secondo il modo con il quale credo d’intendere, con il quale guardo e sento”. L’immagine che ci adatta al tragico, ci riavvia di gioia, compassione e comprensione, si colloca a metà fra il vedere ottico (“guardo”) e la visione interiore (“sento”), è un intenzionare il mondo galleggiando nel limbo della libertà che poi sceglie di incidere in esso, deviarne il corso, afferrarlo, capirlo nel suo fermento, viverlo come via di catarsi, non come tempio di un miracolo. Al capo opposto, l’estetismo di un distacco che rende lo spettatore “vuoto e insensibile”.

Come non ridere amaramente, allora, di fronte alla deliziosa ironia messa in campo da Woody Allen nel suo Basta che funzioni, del 2009. Il personaggio del film è un professore di fisica in pensione, ostile alle ipocrisie e ai rapporti di buon vicinato. Vive solo e inacidito nel suo appartamento finché non irrompe nella sua vita di ipocondriaco la giovane Melody, bellissima e stupidina, che lui finisce per accogliere in casa. Una notte il vecchio maestro si precipita per le scale dalla sua stanza da letto, in preda a un feroce attacco di panico. Si porta le mani alla fronte, suda, si agita, dice di avere una morbosa paura del buio, di aver “visto l’abisso”, e lei serafica lo abbraccia e lo rincuora dicendogli: “non ti preoccupare, mettiamo un’altra cosa”, e sintonizza il televisore su un musical di Fred Astaire che rilassa entrambi sul divano. L’immagine orrorifica del nulla e dell’incompletezza viene d’improvviso bypassata da quella canzonettistica e pacifica del video, e l’effetto è, appunto, digressivo e riempitivo. E’ la “visione d’insieme” la persecuzione intellettuale di Boris, sia che la applichi a una lite con la moglie e al suo primo tentato suicidio, che alle sorti di quella “vergognosa, violenta, prevenuta, illetterata, sessualmente repressa e farisaica” nazione in cui vive. Prendere coscienza, ribellarsi, scongiurare il male, immaginare un mondo possibile e non poterlo realizzare lo fa soccombere come un eroe tragico comicamente salvato dalla fortuna e dalla “grazia” che il buon funzionamento di alcuni rimedi pratici sembra concedergli. Da genio guarda oltre, parla con un pubblico che gli altri non vedono, propensi come sono alla disperata allegria di capodanno, fra caviale e champagne.

Carmine Castoro



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