La contraffazione distrugge


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Intervista ad  Antonio Selvatici di Gabriele Paradisi

Nel mese di ottobre 2012 è uscito per le Edizioni Pendragon “Il libro nero della contraffazione” di Antonio Selvatici, giornalista e ricercatore, consulente della Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni della contraffazione e della pirateria in campo commerciale, Commissione presieduta dal deputato leghista onorevole Giovanni Fava.

Secondo alcuni dati emersi dagli studi svolti,  il valore delle merci contraffatte vendute all’anno nel nostro Paese ammonta tra i 3,5 e 7 miliardi di euro. C’è addirittura chi stima il volume d’affari in 18 miliardi all’anno. Ovviamente la cifra non è di facile determinazione poiché la dark economy non deposita i bilanci in Camera di Commercio e i dati possono desumersi solo come estrapolazione basandosi sui sequestri che annualmente vengono effettuati. Ma Il totale del valore delle merci contraffatte vendute in Italia non corrisponde ovviamente al danno reale che la contraffazione reca all’economia italiana. Infatti occorre mettere in conto altri fattori connessi come la concorrenza sleale, l’annientamento della ricerca, l’azzeramento dei diritti umani, gli enormi flussi economici paralleli, tutti elementi negativi che colpiscono le imprese “sane”, quelle cioè che producono il vero “Made in Italy”. Il Censis ha stimato questo danno addirittura in una perdita annua di 130 mila posti di lavoro.

Vediamo con l’autore, che terrà una presentazione del suo saggio a Strasburgo presso il Parlamento Europeo mercoledì 21 novembre, di entrare nel dettaglio di questo fenomeno che possiamo considerare certamente uno dei più dannosi per la nostra economia.

 

Selvatici da dove provengono prevalentemente i prodotti contraffatti che invadono il nostro mercato?

Circa il 70 per cento dei prodotti contraffatti che entrano in Italia sono realizzati in Cina. Il motivo è molto semplice. Per sopravvivere l’economia cinese deve massimizzare i volumi di produzione. Il profitto è un aspetto secondario rispetto alla quantità, che è il mezzo per creare in poco tempo posti di lavoro e quindi stabilità sociale e politica. Questo il passaggio importante per capire il meccanismo che si cela malamente dietro la grande produzione di beni contraffatti. In Cina le decisioni di politica economica vengono elaborate a livello centrale, ed uno dei problemi che l’autorità deve affrontare è la gestione di 1,2 miliardi di cittadini di cui circa 800 milioni sopravvivono con un reddito di 1 dollaro al giorno. Le campagne sono sterminate quanto povere. La politica economica è soprattutto un mezzo per cercare di tenere coesa la massa, quindi, i grandi volumi di produzione sono il frutto di una incisiva politica economica-sociale (anche fortemente assistita). Creare forzatamente occupazione è uno degli obiettivi del governo di Pechino. A tutti i costi: calpestando i diritti umani, non tenendo conto dell’ambiente, non offrendo assistenza né sanitaria né pensionistica. Un sistema economico “prepotente” figlio di un sistema totalitario. Il vasto mercato estero è lo sbocco naturale di questa incredibile massa di beni generalmente di bassa qualità. Dietro l’impresa privata della forzata iper-produzione di massa si cela malamente la politica economica di Pechino che incentiva le esportazioni. Le conseguenze di pochi anni di questa invasione pacifica (ma non troppo) d’incredibili volumi è ormai nota a tutti: vi è stato un trasferimento di ricchezza dall’Occidente all’Oriente. La massimizzazione dei volumi ha significato produrre merce contraffatta in grande quantità. Non è dato sapere con certezza quanta merce contraffatta fabbricata in Cina arrivi in Italia. Per l’economia cinese è fondamentale, ripeto fondamentale, la produzione di beni contraffatti. Uno studio che cito nel mio libro dimostra che la produzione di beni contraffatti vale circa tra il 15 e 20 per cento dell’intera produzione. Questo è un dato impressionante: la produzione di beni contraffatti vale l’8 per cento del prodotto interno lordo cinese. Ciò significa che uno dei pilastri della crescita dell’economia cinese è la produzione di merce contraffatta. Allora la domanda da porsi è: in una fase di calo della domanda globale possiamo immaginare che la Cina rinunci ad una fetta d’economia così consistente? Le conclusioni sono semplici e drammatiche: ancora per molto tempo l’Occidente verrà invaso da merce contraffatta Made in China. Ma non solo continuerà l’invasione di prodotti contraffatti. La Cina per sopravvivere ha bisogno di appropriarsi di nuove idee e di nuovi prodotti e dunque continuerà a rubarle all’Occidente. A scuola quando cercavo di copiare mi avvicinavo al bravo della classe, non certamente al meno preparato. Così è il Made in Italy: contiene un valore economico intrinseco che in moltissimi cercano di copiarci. Se il Made in Italy non valesse nulla, nessuno cercherebbe di copiarci. Se invertiamo i ruoli il ragionamento prende più forza: chi imita il Made in China? Oggi il mezzo più usato per copiare le innovazioni, per appropriarsi di piani strategici è il furto attraverso la rete. Il cosiddetto cyber crime sarà (ma lo è già) uno degli argomenti con cui l’Occidente dovrà fare i conti. Del resto l’innovazione è anche “mettere in discussione”, non rispettare alcune regole, uscire dai binari, disporre di un sistema scolastico che basa la formazione non solo su presupposti mnemonici. Ma, per definizione, il sistema totalitario è rigido e verticistico; è disciplina e ordine. L’opposto dell’ambiente in cui può nascere l’innovazione. Ed è anche per questo che oggi in Cina circa 15mila ingegneri lavorano per il Governo obbligati costantemente a monitorare la rete. L’economia dell’Occidente che è figlia di un sistema democratico come può competere con una che è l’emanazione di un sistema totalitario?

 

Tu giustamente parli di “forzata iper-produzione di massa”. Nel tuo saggio introduci un elemento inquietante. Molte di queste merci vengono prodotte nei famigerati Laogai, i campi di lavoro delle prigioni del Partito Comunista Cinese. Molti di noi che acquistano consapevolmente un prodotto contraffatto magari non lo sanno…

È vero. In Commissione, durante le nostre ricerche, quando abbiamo cercato di capire dove venivano realizzati certi prodotti, ci siamo imbattuti in questa tragica verità. Per la legge cinese le prigioni lager (dove vengono rinchiusi anche i dissidenti e i preti di religione cattolica cristiana e da dove proviene la più grande massa di organi espiantati) devono essere economicamente autosufficienti. Certamente la mano d’opera a costo zero non manca: ad oggi vi sono circa 3 milioni di condannati ai lavori forzati. Una massa enorme di forza lavoro. Questo fenomeno disdicevole si può presentare anche in una forma diversa ma per certi versi simile. Infatti non tutte le merci contraffatte arrivano da altri Paesi. L’Italia è martoriata dalla presenza di laboratori lager gestiti da cinesi. È bene sapere che i laboratori lager basano la propria sopravvivenza sullo sfruttamento degli stessi lavoratori cinesi. Sono lager perché non vi è alcuna garanzia per i lavoratori che vengono letteralmente schiavizzati. La paga è di 4 euro all’ora, si lavora 12 ore al giorno sette giorni su sette. La trafila burocratica per aprire un’azienda lager è nota: ottenute le autorizzazioni per impiantare un impresa in Italia i cinesi che la gestiscono denunciano alle autorità competenti un numero irrisorio di dipendenti perché quelli necessari per la produzione sono in nero. Sfruttamento, azzeramento dei diritti umani, evasione fiscale e contributiva, nonché concorrenza sleale. Quale impresa sana italiana può competere con una cinese che basa la produzione sullo sfruttamento e sul nero? Ma cosa ancora più grave: In tutte queste vicende di diritti umani calpestati i sindacati sembrano i grandi assenti. Un dato curioso, ma anche significativo: in Italia, in questo periodo di crisi, si è registrato un forte incremento delle imprese cinesi (+8,4% su base annua) a fronte di un decremento di quelle italiane (- 0,4%). Perché?  Perché le loro imprese aprono e le nostre chiudono? Sa che cosa ci ha raccontato in Commissione un imprenditore italiano nonché alto dirigente di un’associazione di categoria della Toscana? Il distretto industriale dei cinesi a Prato produce circa un milione di capi al giorno per “un giro d’affari di due miliardi di euro, di cui la metà presumibilmente di sommerso”.  Si, ha capito bene. A Prato il distretto industriale del tessile abbigliamento gestito dai cinesi produce gonne e maglioni ed anche un miliardo di nero all’anno. È evidente che se vogliamo sanare questo cancro occorrono maggiori controlli. L’impianto legislativo esiste. Ad esempio, sarebbe sufficiente applicare l’articolo del codice penale 603-bis, introdotto dal precedente governo, quello che condanna lo “sfruttamento del lavoro”.

 

Una cosa, tra le tante che riporti nel tuo libro, mi ha colpito particolarmente. Mi riferisco allo sbarco dei cinesi nella derelitta Grecia…

Già… la Cina, soprattutto in questo periodo di recessione globale, come ho già ricordato, ha bisogno di esportare beni contraffatti. Allora negli ultimi anni si è data ancora di più da fare: i signori con gli occhi a mandorla sono andati ad Atene. Perché sappiamo tutti come vanno le cose in Grecia. Ebbene i cinesi si sono presentati all’ombra del Partenone con tanti quattrini e in pochi giorni hanno comprato un po’ di debito pubblico, ma soprattutto per 4,3 miliardi di sonanti dollari, due dei tre moli del porto del Pireo. Il risultato dell’acquisto strategico è incredibile: uno dei porti commerciali più importanti del bacino del Mediterraneo ora è in mano ai cinesi. Altroché salvare la Grecia: i cinesi con l’acquisto del Pireo hanno inserito in Europa il loro Cavallo di Troia. Un acquisto strategico che rimpiangeremo per anni. Perché ora le merci partono dalla Cina via nave, poi giungono al Pireo dove, di fatto, vengono sdoganate dagli stessi cinesi. Poi i carichi vengono smistati ed ora, oggi, adesso mentre siamo qui, le navi cargo arrivano anche ad Ancona, un importante porto dell’Adriatico dove le merci, classificate intracomunitarie, sono pronte o per inondare il nostro mercato, o proseguire via gomma per altre destinazioni europee. Il Pireo è diventato l’hub delle grandi navi provenienti dalla Cina. Incredibilmente l’Europa si è fatta beffare dai cinesi. Ed ora, e presumibilmente sempre più, ci troveremo inondati di merce fasulla. È dunque necessario che i nostri governanti per cercare di tappare i buchi, che non significa risolvere del tutto il problema, intensifichino i controlli nei porti di Ancona e Ravenna, ad esempio. Poi, soprattutto, è necessario l’intervento urgente ed incisivo della buona politica a livello comunitario: è ora che a Bruxelles si diano una svegliata.

Il tuo saggio ha il grande pregio di far conoscere con chiarezza e con esempi che tutti comprendono immediatamente, la gravità del fenomeno. Ci puoi ricordare in due parole il caso dei pomodori Made in China spacciati per Made in Italy?

È presto detto. Innanzitutto un dato significativo: circa il 15 per cento del pomodoro trasformato che viene consumato nel nostro Paese non è stato prodotto in Italia, di questo 15 per cento la maggior parte proviene dalla Cina. E c’è chi ha provato di marchiare Made in Italy ciò che proveniva dall’altra parte del mondo. Così, oggi, la domanda che dobbiamo porci ogni volta che stiamo per infilare la forchetta in un buon piatto di spaghetti conditi con la pummarola, è quasi innaturale: chissà da dove viene . La domanda è insolita perché nel nostro immaginario l’immagine della fumante pummarola si confonde con quella delle terre assolate del sud e della pianura padana. Certamente non vediamo la lontana Cina. Anche perché, sia chiaro, che se sul barattolo ci fosse scritto Made in China, nessuno di noi l’acquisterebbe. Ed è questo il punto: il marchio Made in Italy è il valore aggiunto di molti prodotti. È la nostra ricchezza, è l’espressione della nostra cultura e del nostro fare impresa. Naturalmente, ciò vale per tutti i nostri prodotti: dal maglione, alle scarpe, al prosciutto, alla mozzarella, ai tessuti, al vino, al tartufo, al Parmigiano Reggiano, ai salumi, agli occhiali, al vaso di Murano, ai pezzi di ricambio delle automobili, ai giocattoli dei bambini, alle motoseghe e chissà a quali altri prodotti. Sia chiaro che il bello e il raffinato è Made in Italy, lo sciatto e lo scadente, quello lo lasciamo ad altri. Torniamo al caso del concentrato di pomodoro. Nell’ottobre del 2010 ad una grande azienda che trasforma il pomodoro vengono sequestrati due milioni di barattoli di doppio concentrato. L’accusa è di avere posto la falsa indicazione Made in Italy su confezioni che in realtà erano state riempite con merce proveniente dalla Cina. Poche settimane dopo, e non se ne capisce la ragione, le merce è stata stranamente dissequestrata. Il procedimento penale non si è fermato e, finalmente, il 5 aprile di quest’anno l’amministratore della nota società è stato condannato a 4 mesi di reclusione oltre al pagamento di 6.000 euro di multa. È la prima condanna in Italia per “Vendita di prodotti industriali con segni mendaci “ (articolo 517 del codice penale). Cerchiamo di capire come si sono svolti i fatti e, in particolare, qual è il procedimento industriale che usava l’imprenditore. Via nave dalla Cina, all’interno di grandi fusti di colore blu, arrivavano  in banchina in Italia grandi quantità di triplo concentrato di pomodoro. Che cos’è il triplo concentrato di pomodoro? Semplice: è pomodoro triturato a cui è stata tolta buona parte dell’acqua. Al prodotto cinese qui in Italia veniva aggiunta acqua, sale e poi il tutto veniva pastorizzato, inscatolato e poi venduto come doppio concentrato di pomodoro marchiato Made in Italy. Semplice! Con un po’ di acqua e la giusta quantità di sale, miracolosamente, la pummarola da cinese diventava italiana. Senza dubbio non si tratta di una – trasformazione sostanziale   lavorazione necessaria per marchiare un prodotto importato come Made in Italy. La maggior parte dei barattoli falsamente marchiati Made in Italy erano destinati all’esportazione. Il caso ci spinge a formulare alcune riflessioni:

Punto 1:  il consumatore veniva ingannato, il pomodoro cinese era spacciato per italiano. Il passaggio da cinese ad italiano permetteva di aggiudicarsi il premiun price: infatti, come abbiamo detto, il consumatore è disposto a pagare qualcosa di più perché vede stampigliata la scritta Made in Italy.

Punto 2: è naturale che se le imprese di trasformazione italiane trovano più conveniente acquistare il concentrato di pomodoro cinese, il rischio è che in Italia la coltivazione del pomodoro tenda a sparire. E quindi disoccupazione, il prezzo delle terre baciate dal sole diminuisce drasticamente. Con i conseguenti problemi sociali che ne derivano.

Punto 3: siccome, in questo caso, la maggior parte della produzione fasulla era destinata all’esportazione, un altro rischio è lo screditamento del prodotto. Ma sappiamo che  la campagna denigratoria colpisce senza distinzione tutto il settore e alla fine chi soffre di più sono le imprese sane.

Un’amara ulteriore considerazione e che in casi come questo tutti noi possiamo diventare involontari complici di una perversa catena che parte dai campi di lavoro dei Comunisti cinesi passando attraverso la falsificazione del marchio del Made in Italy.

 

Tu porti all’attenzione di tutti un altro aspetto del complesso sistema connesso alla contraffazione: le agenzie di money trasfer.

Sì. Su questo tema sono drastico e determinato. Bisogna chiudere tutte le agenzie di money transfer. Per capire la ragioni di una richiesta così forte cerchiamo di capire il peso che hanno queste entità all’interno del mondo bancario italiano. Ad oggi il gruppo Banca Intesa San Paolo, tanto per fare un esempio, vanta in Italia 5.900 filiali. Contro i 34mila sportelli di money transfer. Vale a dire che ad ogni filiale del San Paolo corrispondono sei sportelli di agenzie di money transfer che trasferiscono circa 7,5 miliardi di euro all’anno. Ma 7,5 miliardi è quanto dichiarato. In realtà le agenzie di money transfer sono state e vengono utilizzate anche per trasferire fraudolentemente almeno quanto dichiarato. La cosa è semplice: i trasferimenti sotto i 2mila euro non vanno dichiarati. Durante un’operazione di polizia ad una sola agenzia sono state contestate 360mila operazioni. Al titolare di una importante rete d’agenzie di money transfer sono stati contestati “trasferimenti illecitamente riciclati in Cina” per un valore di 5,4 miliardi di euro. Stiamo parlando di numeri stratosferici.

Quando per la Commissione parlamentare d’inchiesta ho analizzato i flussi di denari dall’Italia con destinazione vari Paesi del mondo è emerso un dato anomalo: il trasferimento medio mensile di un cinese in Patria e di poco superiore ai mille euro al mese. Vale a dire che una famiglia di due adulti, magari con due bambini a carico, riesce a trasferire più di duemila euro al mese in Patria. Ma qui di cosa vivono?  Ma quale famiglia d’immigrati realisticamente può permettersi di sottrarre al proprio reddito più di duemila euro al mese? Per dare un’idea il trasferimento medio mensile di un peruviano è di circa 170 euro al mese: cinque volte di meno.

Quindi, chiudere tutte le agenzie di money transfer: sono troppe e difficilmente controllabili ed è già stato largamente provato che vengono utilizzate per trasferire enormi quantità di soldi in nero. Sembra una beffa: ma mentre noi tutti siamo obbligati a dover giustificare ogni movimento di denaro contante [addirittura si parla di portare il limite per la tracciabilità dagli attuali 1.000,00 € a 300,00 €, ndr], le centinaia di migliaia di agenzie di money transfer sono abbastanza libere di muoversi. Chiuderle. Non vedo altre soluzioni.

 

Prima abbiamo accennato agli ignari e inconsapevoli consumatori di beni contraffatti che, ingannati, pensano di acquistare un prodotto “Made in Italy” (il pomodoro doppio concentrato) ed invece non lo è, ma ci sono anche consumatori che volontariamente e consapevolmente acquistano prodotti sapendo che sono dei falsi. Mi viene in mente una pubblicità di qualche mese fa quando due potenziali compratori di un auto, si allontanavano disgustati dal venditore non appena quest’ultimo aveva detto loro il prezzo. «Solo??? – rispondevano pieni di stupore – ma noi vogliamo spendere molto di più…». Forse, per contrastare la contraffazione dovremmo paradossalmente pretendere che i prodotti costino il giusto prezzo, quello cioè che al suo interno contiene anche i diritti di tutte le persone che hanno concorso alla sua realizzazione? Pretendere di pagare di più un prodotto forse non è né follia né autolesionismo, ma solo saggia tutela dei valori che con tanta fatica e sangue la nostra civiltà si è conquistata?

Questo è punto importante. La merce viene posizionata sul mercato ad un determinato prezzo. L’acquirente, in base ad un mix di fattori, è libero di scegliere un prodotto piuttosto che un altro. Il prezzo è uno degli elementi che su alcuni prodotti è determinante, per altri lo è meno. Certamente il prezzo di un litro di latte è determinante nella scelta del prodotto. Ma lo è meno nel caso dei beni di lusso, siano, ad esempio, borse o autovetture. Ma non è “obbligatorio” acquistare una borsa di Louis Vuitton piuttosto che di Gucci o Hermes. Così come è “superfluo” avere al braccio un Rolex che offre lo stesso servizio di un più economico Swatch. Questo è un fatto culturale: perché acquistare un falso, anche se d’autore, solo perché comprare l’originale comporterebbe uno sforzo economico non sopportabile? Il volere ostentare ad ogni costo  è diventata una malattia che prima o poi va curata. L’immagine prima di tutto ed ad ogni costo è una chiara manifestazione d’infantilismo e insicurezza. Mi chiedo: è così divertente mostrarsi all’ora “giusta” lungo il Corso osteggiando una borsetta falsa?

 

Credo che il tuo saggio sia molto utile per sensibilizzare l’opinione pubblica ma soprattutto coloro i quali hanno gli strumenti per prendere le decisioni. Penso ai nostri politici e più in generale ai politici europei. Trovo molto significativo che tu sia stato invitato a presentare questo tuo libro a Strasburgo. Vuoi chiudere con un pensiero finale?

Molto semplicemente voglio chiudere con una serie di domande che dovrebbero suscitare serie riflessioni e far comprendere che occorre trovare in fretta dei validi rimedi pena la distruzione completa del nostro tessuto produttivo. Dunque le domande che lancio sono queste: per quanto tempo ancora dobbiamo subire la concorrenza sleale delle imprese cinesi? In pochi anni in Italia sono nate  migliaia di piccole imprese gestite da cinesi, molte di queste calpestano e sfruttano i lavoratori. Producono e commerciano non rilasciando alcuna fattura. Così facendo eliminano le imprese sane, quelle che applicano le norme. Lo ripeto, per quanto tempo ancora dobbiamo assistere a questo palese e vergognoso spettacolo?

Ringraziamo Antonio Selvatici e ricordiamo che mercoledì 21 novembre alle ore 16.30 presso la Sala LOW N3.2 del Parlamento Europeo di Strasburgo si terrà la tavola rotonda “La contraffazione distrugge in Europa centinaia di migliaia di posti di lavoro e sottrae milioni euro agli Stati e alle imprese”. Oltre all’autore de “Il libro nero della contraffazione”, interverranno il presidente della Commissione mercato interno e protezione dei consumatori Malcom Harbour, la vicepresidente della Commissione commercio internazionale Cristiana Muscardini e i membri della medesima Commissione Niccolò Rinaldi e Gianluca Susta.

 

 



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