Cristiano Ceretti alla 54° Biennale di Venezia


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Cristiano Ceretti artista Post-Pop milanese trapiantato a San Pietroburgo, è presente alla 54° Biennale di Venezia con la video installazione “Pinocchio goes to Smolny”. Smolny è l’edificio pubblico di San Pietroburgo, realizzato tra il 1806 e il 1808 dall’architetto italiano Giacomo Quarenghi, sull’evidente calco degli edifici neo-classici del Palladio. Non è così insolito, pertanto, che il milanese Cristiano Ceretti, già premiato negli scorsi anni al Master of Class della città sulla Neva, porti nientemeno che il burattino di Carlo Collodi – Pinocchio – nel luogo simbolico del potere russo. Smolny, infatti, dopo essere stato l’istituto che accoglieva le ragazze nobili, è divenuto sede del governo provvisorio della rivoluzione bolscevica, poi del partito comunista sovietico, quindi dell’amministrazione cittadina di San Pietroburgo. Emblematicamente, lo stesso Putin ha lavorato nell’edificio di Smolny subito dopo il putsch di Eltsin, fino alla metà degli anni ’90. Che cosa ricava l’artista post-pop Cristiano Ceretti, dall’inedito incontro tra il ragazzo di legno più popolare del mondo, con un tempio del potere come Smolny? Una cifra, intanto, li accomuna: entrambi sono, a loro modo, dei mutanti. I volti del potere si succedono nei secoli, ma Smolny è il palcoscenico su cui le sue maschere si inseguono con cadenza sistematica. Pinocchio, metà automa, metà uomo, è anch’esso un individuo di passaggio, di transizione, un nomade dell’esistenza sul quale s’innesta una rudimentale tecnologia di legno – un prototipo del post-umano, diremmo oggi – che Ceretti proietta in variegati scenari contemporanei di vita urbana e naturale, nella Venezia del nord. Ibrida è la tecnica pittorica dell’artista.

I suoi disegni originari prendono corpo nella grafica manovrata dal mouse,  per poi passare alla tecnica mista su tela, dove la stampa si fonde con il collage. Textures e icone delle case di moda, come tante pennellate della mano, sigillano l’aura unica e irripetibile delle opere di Cristiano Ceretti, che in questo modo sfonda i limiti e l’anomia della serialità, incorporandola nell’opera per trasformarla, per riconferirle umanità. All’incrocio tra umanità e artificio, ma più spesso tra umanità e animalità, sono anche i compagni d’avventura di Pinocchio, mutanti come lui, ibridi, irrisolti, eppure determinati a vivere, a bruciare con il loro comportamento trasgressivo, sopra le righe, i boschi, le strade, i locali, le  piazze storiche della metropoli russa. Non è un caso che la marionetta semi-umana di Ceretti, talvolta manovrata da una barbuta metafora della Legge e del Destino, venga coinvolta anche in un pestaggio della polizia. Su questa scia, il vivido fumettismo dell’artista acquisisce delle tonalità che virano nel perturbante, salvo poi riformularsi sul piano meno conflittuale del fantasy. È il caso, rispettivamente, della scena in cui degli insetti verdi, dei giganteschi grilli antropomorfi, calano Pinocchio in una fossa, e dell’immagine di un funerale, che richiama alla memoria alcune atmosfere alla Tolkien e alla Lewis Carrol.

 

Sul crinale tra l’esaltazione della violenza e la gioiosità liberante del gesto, dell’esibizione del corpo, è il quadro più kubrickiano di Ceretti. In esso, un Pinocchio trinitario s’atteggia a eroe negativo, a protagonista di A clockwork orange, il racconto distopico di Anthony Burgess del 1962, da cui Stanley Kubrick ha ricavato il capolavoro cinematografico, che tanto ha segnato l’immaginario urbano e la rappresentazione metafisica della sopraffazione.

Anche il bizzarro eroe di Collodi, bugiardo impenitente e incline costantemente a sbagliare, ricopriva il ruolo di pervicace critico dell’ordine costituito, o meglio, dei formalismi e dei perbenismi borghesi ottocenteschi. A Smolny lo sfondo storico e sociale è notevolmente cambiato: Pinocchio è divenuto adulto, i gendarmi sono sinistri funzionari formatesi al KGB, le marachelle sono diventate piaceri di dissipazione.

Eppure le pulsioni e i desideri di questo nuovo Pinocchio, gettato in un universo che culturalmente non gli appartiene – ma in cui egli ricostruisce le tracce di una storia almeno in parte familiare – sono identici a quelli del suo antenato di legno. Insofferenza e rivolta sono le vie che ancora conducono alla felicità, al pari di menzogna e furbizia.

Tuttavia, se al burattino di Collodi si poteva perdonare tutto, in virtù della sua infantile ingenuità, al personaggio di Ceretti occorre riconoscere uno statuto diverso, maggiormente problematico. La Grande Madre Russia ha impresso un’accelerazione alla crescita di Pinocchio, al punto che questi indugia talvolta su pensieri di morte e caducità, profondi come la fossa su cui si affacciano i grilli-carnefici.

Forse non è un caso che nel ciclo di Smolny, la soggettività dell’artista emerga con tratti biografici più netti che nel passato, in altre prove, in altre opere. Nell’altrove russo, sottoposto alla perdurante prova dell’estraneo, Ceretti sembra incontrare il suo vero sé, senza smettere d’essere ciò che è sempre stato.

 

Pinocchio goes to Smolny, se vogliamo riprendere un’espressione dell’odierna critica letteraria, è una sorta di auto-fiction pittorica in cui l’artista si rappresenta consincerità e insieme ironia, senza quindi chiudersi in se stesso, ma aprendosi al diverso, al distante, all’oriente: a quella mostruosità che, prima d’essere suo tratto individuante, è segno delle cose, della verità, dei reali rapporti di potere che governano le relazioni tra le persone.

 



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