Keith Haring e il Murale di Milwaukee: il linguaggio universale dell’arte.


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Torna in Italia Keith Haring, artista molto amato dai giovani, icona pop, simbolo degli anni ‘80, volto della Street Art, corpo della New York underground, anima di quel linguaggio universale che in soli dodici anni di attività ha saputo diffondere da occidente ad oriente. Il Museo Archeologico Nazionale d’Abruzzo, La Civitella – dal 30 luglio al 19 febbraio 2012 – ospita  il Murale di Milwaukee di Haring, un lavoro maestoso che si estende per trenta metri in lunghezza e due metri e mezzo in altezza. L’opera venne commissionata all’artista americano nel 1983 per inaugurare l’apertura del Museo Haggerty di Milwaukee. I ventiquattro pannelli in legno che accolgono i graffiti, riassumono tutta la poetica figurativa di Haring, un linguaggio semplice, immediato, riconoscibile e familiare che secondo l’artista doveva avere la capacità di comunicare col mondo intero senza distinzione di classe, di cultura o di razza, un linguaggio universale appunto: l’arte, come la musica, non doveva avere limiti o restrizioni, doveva essere libera, arte pubblica nel vero senso della parola.

Haring immagina e realizza un’arte  senza confini, senza barriere, arte al servizio di tutti, esposta a tutti e proprio per questo, disegna sui muri delle città, nelle metropolitane, sui cartelloni per strada, su ogni materiale recuperato, su magliette, scarpe, vestiti, tutto quanto facesse parte del vivere quotidiano. L’iconografia infantile e stilizzata che sconfina col fumetto, ci restituisce dei simboli primordiali come il bambino a quattro zampe che sprigiona raggi luminosi, chiamato ‘radiant baby’, omini colorati che danzano oppure cani che abbaiano, tutte figure che esprimono temi di gioia, spensieratezza e positività e che diventano la firma di riconoscibilità dell’artista. Ma non mancano critiche alla società contemporanea espressi attraverso figure di uomini con la testa di serpente, ballerini con la testa a forma di TV o monitor alati che si librano in volo. Molto frequenti sono pure i messaggi sociali che Keith Haring non rinuncia mai a diffondere attraverso la sua arte di strada e di cui un esempio notevole è il murale realizzato nel 1986 nel quartiere povero di Harlem, New York, dove dipinge su una grande murata della East Harlem Drive un ammasso di omini dal contorno nero su una base di colore rosso sormontati da un enorme scheletro sul cui capo troneggia la scritta Crack is Wack (il crack è una porcheria).

Il magrissimo e occhialuto ragazzo che arriva dalla Pennsylvania ispirato dai personaggi della Disney, in pochi anni conquista New York, diventa amico intimo di Andy Warhol, e’ ammirato dalle nascenti pop star come Madonna, idolatrato dal grande pubblico, condannato dalle autorità per l’illegalità dei suoi graffiti urbani, amato e odiato dai critici, corteggiato e disapprovato dai galleristi che se da un lato vedono un grande potenziale di artista, dall’altro non riescono ad esercitare il controllo sulla produzione di Haring, profondamente incurante delle leggi di mercato.

Keith Haring fa arte e basta. Non si interessa delle quattro mura di una galleria, del prestigio dei musei, delle quotazioni delle sue opere. La sua missione è comunicare a quanta più gente è possibile disegnando su innumerevoli muri con instancabile frenesia e con la grande forza di promuovere i valori della tolleranza, della pace e dell’eguaglianza; con l’audacia di vivere la propria omosessualità senza paura dei pregiudizi, il coraggio di dichiarare alla rivista Rolling Stone di essere affetto dall’ HIV in anni in cui i malati di Aids erano emarginati come gli appestati e infine, con la dignità di accettare la morte a soli 31 anni lasciando che la sua arte fosse patrimonio di tutti.

Michela Cella



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