Epoche. Cambio di costume


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«La Morale è salva! Il Pudore è salvo! La Famiglia è salva! Lo Stato è salvo! Men il settimanale degli uomini, è stato condannato ad un anno di reclusione nella persona del suo direttore, Marcello Mancini».

Cominciava così l’editoriale “Men al rogo” a pagina 7 del settimanale incriminato, sul numero 4 del 27 gennaio 1967.

Così andavano le cose in Italia sul finire degli anni ’60.

Men era stato fondato da Mancini, che in origine era stato cronista sportivo per un giornale cattolico, nemmeno un paio di mesi prima.

Sul numero 1, datato 2 dicembre 1966, a pagina 5 era scritto: «In tutti i Paesi liberi e moderni, sono nate e hanno fatto fortuna in questi anni le riviste per gli uomini. Inchieste brucianti, rubriche specializzate, e soprattutto piacevoli servizi fotografici: meravigliose ragazze, sconosciute o attrici di gran nome, svestite o spogliate, sempre sorridenti, sempre piene di vita. Playboy in America, Lui e Adam in Francia, Penthouse e King in Inghilterra. […] In Italia adesso ci proviamo noi […] L’Italia ormai è diventata adulta. Almeno lo speriamo».

Beh, a leggere quello che successe, sembra proprio che il nostro Paese non fosse ancora nella condizione auspicata dai redattori di Men. I primi sette numeri della rivista infatti collezionarono sette sequestri. Addirittura la sera di mercoledì 4 gennaio 1967, «la forza pubblica si presentava nello stabilimento tipografico presso il quale si stampava» il n. 2 datato 13 gennaio 1967, pretendendo la consegna di tutte le copie stampate, costringendo a sospendere la tiratura e a fermare le macchine. Curiosamente sull’Osservatore Romano del pomeriggio di quello stesso giorno era uscito “profeticamente” un trafiletto che annunciava come già disposto dalla Procura il sequestro del settimanale «giudicandolo di contenuto contrario al buon costume».

Il 14 gennaio 1967 Mancini fu condannato a 1 anno di reclusione e a 180 mila lire di multa. A quel punto lasciò la direzione ad Attilio Battistini il quale, come ebbe a dire ai magistrati, aveva accettato poiché disoccupato da tre anni.

Una curiosità: prima della guerra, alle fattezze di Battistini, si era ispirato il pittore Attalo (Giacchino  Colizzi) per creare il personaggio di una vignetta umoristica del vanesio (elegantone, scucchione e nasone) “il Gagà (che aveva detto agli amici…)”.

Nonostante la condanna subita, le pubblicazioni del settimanale proseguirono imperterrite.

«Siamo davvero un paese sottosviluppato – continuava l’articolo del 27 gennaio 1967 – se il nudo, il semplice nudo di una donna, è ancora capace di suscitare inquisizioni e condanne».

Detto ciò, i giudici in Camera di Consiglio impiegarono appena 13 minuti per decidere la sorte di Men e di Mancini.

Spassoso il finale dell’editoriale pubblicato sul n. 3 del 20 gennaio 1967: «I bigotti e gli ipocriti che reclamano la maniera forte contro di noi, ironizzeranno a questo punto e la battuta è facile: “Ma cosa vogliono adesso? Il Mercato Comune dei sederi?”. Ebbene sì, è proprio quello che auspichiamo. E d’altra parte di queste parti anatomiche predichiamo almeno un uso proprio, tradizionale e ruspante. O forse è appunto questo che dà tanto fastidio?».

Il “settimanale degli uomini” sempre il 27 gennaio 1967, se la prendeva soprattutto con certi «giornali furbi […] per famiglie o quelli paludati, seriosi, pedanti che pubblicano le interviste di Rumor e poi sparano in prima pagina certe foto di donne di fronte alle quali forse soltanto il segretario D.C. tirerebbe di lungo».

Ma non basta, c’era anche, secondo i responsabili di Men, un altro male nazionale alla base di queste decisioni oscurantiste: l’Italia è «un paese flagellato dal clericalismo e nel quale l’omosessualità s’insinua in così larga misura fin nelle vette del potere politico ed economico, nelle gerarchie religiose e nei “milieux” intellettuali, artistici e mondani […] in un tal paese, è giusto che un nudo di donna, ancorché pietosamente coperto nei punti più inquietanti, debba suonare come una provocazione, un oltraggio, una sfida […]  mentre certi giornaletti per “culturisti”, i cosiddetti “muscle boys”, possono circolare liberamente e nessuno si scandalizza, nessuno parla di “speculazioni” se trova in edicola questi autentici vademecum del pederasta, traboccanti dalla prima pagina all’ultima, di maschioni con la pelle lucida, i muscoli turgidi, oscenamente nudi, anzi ancora più lerci per quei ridicoli “cache-sexe” che sembrano fatti apposta per porre in risalto, anziché nascondere, certi attributi dall’uso sicuramente peregrino».

Sembra proprio che all’epoca, dunque, non esistesse ancora il concetto di politically correct o più probabilmente non si era ancora imposta e diffusa quella “tolleranza positiva” che comprende e ammette anche comportamenti individuali diversi dalla norma. In altre parole, sarebbe stata ancora lunga e tormentata la lotta dei gay per ottenere rispetto e un riconoscimento anche da parte delle cosiddette avanguardie culturali più disinibite.

Sempre dall’editoriale di Men del 27 gennaio 1967, veniamo anche a sapere che per quanto riguarda Play-boy, ovviamente proibito, una «grottesca misura» del Ministero delle Poste ne impedisce «finanche il recapito agli abbonati in busta chiusa!». Ma i redattori di Men in fondo non nascondevano un certo orgoglio e confessavano che li «inebria[va] quell’odore di zolfo di cui [avevano] voluto circondarli».

Nonostante le decisioni dei giudici, dunque, le pubblicazioni erano proseguite senza Men…o, tanto che il 9 marzo 1967 Mancini e Battistini verranno addirittura arrestati con l’accusa di pubblicazione oscena e offensiva alla morale familiare. È la prima volta in Italia che due giornalisti vengono arrestati per concorso in pubblicazione oscena.

Gli articoli del codice contestati erano per l’esattezza il 110 (concorso), il 528 (pubblicazione di scritti, disegni, immagini e altri oggetti osceni), il 529 (dove si specificava che si considerano osceni gli atti e gli oggetti che secondo il comune sentimento offendono il pudore) e il 725 (commercio di scritti, disegni e altri oggetti contrari alla pubblica decenza). Ai due giornalisti venne anche contestata la recidività poiché dopo la prima condanna di Mancini a gennaio, le pubblicazioni erano proseguite, «dimostrando insensibilità morale e giuridica».

La “caccia alle streghe” non aveva però colpito solo i due giornalisti. Sempre il 9 gennaio 1967 infatti, un magistrato di Agrigento, il dottor Giuseppe Tuccio, aveva condannato un edicolante di San Biagio Platani a 5.000 lire di multa per aver venduto una delle riviste sequestrate in cui apparivano foto oscene: «il piccolo seno da adolescente della irresponsabile quattordicenne Romina Power [in realtà all’epoca “già” quindicenne] e certe particolarità anatomiche di “tale” Rossana Podestà che offre all’osservazione del lettore il proprio sedere e parte del seno». Il magistrato se la prendeva poi anche con la madre della Power, l’attrice Linda Christian, il cui atteggiamento non fa «nessuna differenza tra la madre donna e la madre vacca» (l’Unità, 10 gennaio 1967).

Anche in questa occasione notiamo come di acqua sotto i ponti ne sia passata da allora… al di là degli eccessi del magistrato siciliano, pubblicare oggi in una rivista venduta nelle edicole il corpo seminudo di una minorenne sarebbe oggetto di condanne ben più gravi.

Processati per direttissima dalla IV Sezione del Tribunale di Roma, i due giornalisti saranno condannati il 15 marzo: Mancini a 10 mesi di reclusione e 150 mila lire di multa e Battistini a 13 mesi, 10 giorni e 200 mila lire di multa. Verrà comunque loro concessa la libertà provvisoria.

L’accusa riconobbe che dibattere i temi del sesso era importante, ma era anche importante vedere «come lo si fa». Il contenuto del settimanale venne così descritto: «Una serie di donne in atteggiamenti equivoci, una serie di racconti nei quali si descrivono i più impensati accoppiamenti. No. In questo modo non si risolve alcun problema. E per di più si violano la legge e la Costituzione […] Men non è che un’impresa economica, un modo di far soldi costituito dalla fabbricazione e messa in commercio di un oggetto osceno». Il pm dott. Pasquale Pedote aveva dichiarato a latere: «Qualcuno ha sostenuto che il costume si è evoluto per cui non si dovrebbe ritenere che le pubblicazioni di Men abbiano colpito il sentimento del pudore. Io escludo che il popolo lavoratore voglia essere disturbato dalla visione di donnine nude che bevono coppe di spumante e che si abbandonano al lusso più sfrenato. Ciò rappresenta non un’evoluzione, ma un’involuzione del costume».

 

Nel 1967 io ero ancora praticamente un bambino, ma avevo la fortuna di frequentare un cugino che abitava alla periferia della città. Proprio di fronte alla sua casa, c’era un luogo meraviglioso: una cartiera, dove camion e furgoni scaricavano di continuo montagne di carta usata da riciclare. Con le nostre gambette nude ci arrampicavamo su quelle montagne di cellulosa e cominciava un’entusiasmante caccia al tesoro. Tra quotidiani, carta straccia e da pacchi, ecco spuntare di tanto in tanto, qua e là, alcune perle. Vere e proprie pepite preziose. Spaginati, strappati, sbrecciati, affioravano decine di album (così mio padre chiamava i fumetti), semplicemente spostando un vecchio rotocalco sgualcito o un cartone. E allora ecco Kriminal, il re del delitto, o Satanik e la sua legge del male; Lucrezia e Isabella, duchessa dei diavoli; Messalina, Sadik e Zora la vampira. Anche i fumetti “neri” in quell’inverno del 1967 subiranno processi per «aver offeso il comune sentimento della morale e dell’ordine familiare; di aver istigato i lettori ad imitarli», ma la loro è un’altra storia ancora.

Di Men, di cui ho recuperato quei numeri storici, c’è da dire che a riguardarli oggi si sfiora il patetico e la tenerezza. Nulla a che vedere con i giornaletti svedesi che talvolta ci capitava di trovare già allora alla cartiera e che facevano vacillare la nostra ormai labile «incoscienza dentro il basso ventre» (Francesco Guccini, Eskimo, 1978), e nemmeno nulla da spartire con i calendarietti profumati dei barbieri. Le foto di Men, in quella stagione almeno, erano ciò che oggi definiremmo senza dubbio alcuno, foto castigate e pudiche. Ragazze ritratte per lo più in costume; topless rigorosamente censurati da braccia o da veli «pietosi» e anche quando il costume spariva del tutto ecco un provvidenziale lenzuolo o più poeticamente qualche petalo di fiore a nascondere i «punti più inquietanti».

Nulla a che vedere con ciò che è passato da allora sulle nostre tv o sui giornali.

Era meglio in quel tempo? È meglio oggi? Non saprei proprio. L’unica cosa certa che possiamo affermare è che sicuramente da allora c’è stato… un “cambio di costume”.

Gabriele Paradisi



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