Neil Armstrong, la luna come epopea


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Tutto era cominciato nel 1957, che pure sembrava un ordinario anno di guerra fredda, come tanti. Al Cremlino c’era il sanguigno Nikita Kruscev, un astuto ex minatore insieme violento e pragmatico, rozzo e ingegnoso, che in seguito avrebbe avviato a Mosca il ridimensionamento del culto di Stalin. In America era presidente Dwight Eisenhower, detto Ike: un nome che oggi ai più giovani non dirà molto, leader certamente popolare e amato ma di moderato carisma: proprio lui, da comandante in capo delle forze alleate, aveva diretto nell’ultima guerra lo sbarco in Normandia (1944). Destinato a precedere Kennedy, non ne aveva certo il raffinato charme. Ma aveva saputo fronteggiare con molto polso le crisi di Berlino ripetutamente provocate dal blocco sovietico.
Un anno come tanti, dicevo. Che Eisenhower, incoraggiato da molti scienziati, aveva voluto ufficialmente dedicare alla Ricerca Geofisica Internazionale insieme ad altri 70 paesi, secondo quella tradizione di grande apertura alla collaborazione da sempre tipica dell’America. Il presidente annunciò anche che per l’occasione gli Stati Uniti intendevano lanciare in orbita un piccolo satellite artificiale di meno di quattro chili, una sferetta grande come un pompelmo, grazie al sofisticato ma poco collaudato vettore Vanguard, un missile a tre stadi della Marina militare (la Nasa ancora non c’era, e ognuna delle tre forze armate si muoveva indipendentemente dalle altre due). Annuncio importante ma non clamoroso, in anni di contrapposizioni durissime tra blocchi, quando le tensioni militari terrestri – recente la guerra in Corea, imminente quella in Vietnam – impedivano ai governi e alle opinioni pubbliche di scrutare con troppa attenzione gli orizzonti celesti.
Ma ecco il 4 ottobre la notizia bomba: l’Unione Sovietica mette in orbita uno “Sputnik” (“compagno di viaggio”): una lucida sfera di alluminio con quattro lunghe antenne, del diamentro di 50 cm. e del peso di 80 chili (importante per capire la potenza del vettore). Il primo satellite artificiale della Terra! Così percosso e attonito l’Occidente subisce ogni 90 minuti – il tempo di un’orbita – i beffardi bip-bip lanciati dallo spazio da quel rude, molesto ma efficiente attrezzo del Socialismo Reale. Che fare? In Florida, a Capo Canaveral, i primi lanci del Vanguard sono disastrosi: l’affusolato vettore si solleva di pochi metri per esplodere subito con grande profusione di fiammate, polveri, rottami e gas che inceneriscono e distruggono la piattaforma di lancio. L’ America vive con mortificazione, quasi una seconda Pearl Harbor, quei lunghissimi mesi di fine ’57. Poco dopo i sovietici rincarano la dose con lo Sputnik 2, con a bordo il cane Laika: per il quale, cinicamente, non è nemmeno previsto un congegno di rientro a terra. Per sbalordire il mondo era sufficiente che un essere vivente – vivente anche solo per poche ore – gli girasse attorno dall’alto: 2 a zero per i russi. La partenza bruciante dei sovietici, destinata poi a consolidarsi in un’egemonia di anni, è presentata dalla propaganda comunista come il simbolo di una superiorità politica, ideologica, industriale e scientifica. E anche strategica, perché i sovietici dimostrano di disporre di vettori balistici molto potenti e a lunga gittata, adatti anche a testate nucleari, che l’America non ha ancora – mentre grazie ai bombardieri strategici gode di una schiacciante superiorità aerea, peraltro in quegli anni tenuta gelosamente segreta.
Dopo il duplice schiaffo, gli Stati Uniti superano lo stordimento e corrono ai ripari. Accantonato per il momento il fallimentare Vanguard, è convocato in tutta fretta quel Wherner Von Braun, scienziato di origine tedesca, padre della moderna missilistica, e in particolare dei micidiali razzi V2 con cui Hitler aveva bombardato Londra. Von Braun gode di pieni poteri e non perde tempo: recupera dall’ Esercito un missile tattico a media gittata non proprio nuovo, il modesto Redstone, lo potenzia e lo modifica con sezioni di altri vettori: nasce così lo Jupiter C a tre stadi con cui finalmente, nel febbraio del 1958 gli Stati Uniti riescono a porre in orbita il loro primo satellite, l’Explorer, che dà un po’ di sollievo all’orgoglio nazionale e scopre tra Terra e Luna certe pericolose radiazioni, le cosiddette “fasce Van Allen”. Da allora è tutto un pirotecnico susseguirsi di nuovi lanci da entrambe le parti. Nell’insieme, i sovietici consolidano la supremazia nel campo dei vettori potenti e dei veicoli pesanti. Infatti il 15 maggio 1958 è la volta dello Sputnik 3, che nella sagoma ricorda un po’ una caffettiera, e pesa una tonnellata e 300 chili. L’America, che dispone per il momento di vettori più deboli come il missile Thor dell’Aviazione, è così costretta a specializzarsi nella miniaturizzazione dei congegni, per sistemi più maneggevoli e leggeri ma tecnologicamente molto evoluti. Così. a partire dal 1962, darà il via alla famosa serie dei Telestar, i primi satelliti per telecomunicazioni, che trasmettono a terra inedite immagini del pianeta e consentono finalmente le riprese televisive in diretta da un continente all’altro. Fino a quel momento i telegiornali in bianco e nero, dando le notizie da Oltreoceano, mettevano in onda immagini tratte dalle tradizionali pellicole aviotrasportate, con le riprese del giorno prima.
Intanto la corsa all’universo più profondo non si ferma, anzi deve sempre più entusiasmare e sbalordire il mondo nel suo accelerato crescendo: la gara punta ben presto in altre direzioni, come il lancio di sonde automatiche verso altri corpi celesti: Luna e pianeti del sistema solare. Nel 1959 i russi, sempre in testa, colpiscono o circumnavigano con due Lunik il nostro satellite naturale, fotografandone la faccia nascosta. Clamoroso. Molte altre sonde automatiche verranno in seguito lanciate a perlustrare il sistema solare, con esiti alterni. Certo non è facile centrare l’obiettivo di un pianeta lontano. La Russia, nel ’71, colpisce Marte con le sonde gemelle Mars 1 e Mars 2, e sfiora Venere. Anche dall’America, negli anni, partiranno strumenti sempre più evoluti per la Luna,Venere e Marte (come il Viking, 1976). Alcuni di questi arriveranno a varcare i confini dell’ignoto, uscendo dal sistema solare e continuando a trasmettere segnali. In tempi recenti questo tipo di esplorazioni ha dato risultati preziosi, con immagini smaglianti ad altissima definizione. Oggi il prodigioso Curiosity è su Marte da pochi giorni. Ma, finita la guerra fredda, tutto quel fervore competitivo non ha più ragion d’essere.
Negli anni sessanta, invece, l’umanità vede nel volo spaziale umano – attorno alla Terra e in prospettiva verso la Luna – il traguardo più ambizioso e spettacolare, anche indipendentemente dai risvolti tecnico-scientifici. Il centro di addestramento degli astronauti russi, che i sovietici preferiscono chiamare cosmonauti, si trova a Star City, nei sobborghi di Mosca. Mentre gli americani preparano la loro selezionatissima équipe a Houston, nel Texas. Quasi sempre si tratta di giovani piloti, con lunga esperienza di jet militari e prototipi supersonici. Le prove alle centrifughe sono durissime, perché alla partenza del razzo, per la brusca accelerazione, il corpo umano dovrà subire un violento chock. Stesso fenomeno con la decelerazione del rientro. In orbita non c’è gravità, e l’uomo galleggia senza peso. Non è facile imparare a muoversi in queste condizioni. Infine i futuri esploratori dello spazio, per avventurarsi in orbita, devono conoscere a fondo tutte le caratteristiche dei veicoli che dovranno guidare: di qui ore e ore trascorse al simulatore di volo, impegnativo come un veicolo vero.
Il mondo segue con passione i preparativi, apertamente tifando per gli uni o per gli altri. Da Mosca non trapela nulla, perché i sovietici da sempre mantengono una tradizione di stretta reticenza: la Pravda e l’agenzia TASS danno notizia di un lancio solo quando il successo è certo. Ma attorno al 1960 diversi radiotelescopi nel mondo, tra cui quello dei fratelli Judica-Cordiglia nella collina di Torino, già captano dall’etere segnali drammatici: come le voci concitate di cosmonauti russi lanciati segretamente in orbita e destinati a non tornare vivi, per qualche incidente o disfunzione tecnica. “Terribile – mi confidava tempo fa il professor Judica Cordiglia, cardiologo, che tuttora conserva i nastri di quelle chiarissime registrazioni. “Una donna gridava che l’abitacolo era rovente, il calore micidiale. Da terra minimizzavano: tranquilli, tutto bene, tutto previsto. Invece stavano bruciando vivi nel rientro, probabilmente per l’angolazione sbagliata.” Poveri, anonimi eroi senza gloria che nessuna fonte ufficiale avrebbe mai menzionato: evidentemente la foga di un nuovo primato prevaleva sulle più elementari precauzioni di sicurezza. In seguito altri cosmonauti russi sarebbero morti in missione: le fonti sovietiche ne davano l’annuncio solo se costrette, quando tutto il mondo ormai era già al corrente dei lanci.
12 aprile 1961: ancora una volta la Russia stupisce il mondo con un nuovo trionfo: è il volo orbitale (90 minuti) di Yuri Gagarin nella navicella Vostok (“Oriente”) di 4, 7 tonnellate. Non si tratta proprio di un’astronave: è una struttura massiccia, tondeggiante, dall’ abitacolo molto spartano e quasi privo di comandi. Il rientro è temerario: la Vostok, dopo un’ unica orbita, scendendo nell’atmosfera più densa diventa una palla di fuoco: e Gagarin deve lanciarsi col paracadute, con un atterraggio fortunoso. Qualche mese dopo ecco la clamorosa l’impresa di Titov (6 agosto 1961), che con la con la Vostok 2 resterà in orbita in orbita più di un giorno. Negli anni a seguire, partiranno dal famoso cosmodromo di Baykonur (Kazakhistan) modelli sempre più grandi e perfezionati, come la Voskhod con tre piloti (1964), la Soyuz (che funge tuttora da traghetto tra la Terra e la stazione spaziale internazionale ISS ) e la Salyut:(1971). La costruzione della stazione modulare MIR ha inizio ancora sotto il comunismo (1986), ma l’assemblaggio nello spazio si conclude molto dopo la caduta del Muro. Nella confusione del passaggio da un regime all’altro accadde anche che un solitario cosmonauta, ignaro degli epocali rivolgimenti che si producevano in patria, venisse dimenticato in orbita. Al cosmodromo di Baykonur ci fu persino un inedito sciopero di cosmonauti. Alla fine, per fortuna, qualcuno si ricordò del collega e lo riportò a terra.
Dopo il volo di Gagarin l’America non sta a guardare, e investe nelle esplorazioni spaziali enormi capitali umani, finanziari e tecnologici. La tensione della guerra fredda agisce da acceleratore, ma il gap da colmare non è poco, e la rimonta è graduale. Dal ’59 gli Stati Uniti lavorano al progetto Mercury, in vista di voli umani prima balistico-suborbitali e poi orbitali. Il programma lunare Apollo-Saturno è ancora indietro, in fase di studio. I prescelti, tutti uomini già temprati come piloti o collaudatori supersonici , sono sette: Alan Shepard, Virgil Grissom, Scott Carpenter, John Glenn, Gordon Cooper, Walter Schirra e Kent Slayton. Quest’ultimo poi costretto a terra da un occulto vizio cardiaco, nel ruolo impegnativo ma meno eroico di controllore dei voli al centro spaziale di Houston: una frustrazione che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Dal 1958 si è posto fine alla dispersiva rivalità tra Esercito, Marina e Aviazione riportando tutta l’attività astronautica e spaziale sotto il controllo unificato di un nuovo ente pubblico, la National Aeronautics and Space Administration (NASA): un caso quasi unico, perché la nazionalizzazione è un istituto del tutto estraneo alle tradizioni e alla natura stessa dell’America. Il 5 maggio del ’61 Alan Shepard è il primo americano nello spazio, con un breve volo balistico sub-orbitale. Il missile è un Redstone, la capsula è già la leggendaria Mercury. E’ la risposta americana a Gagarin, che certo, entrando in orbita, aveva fatto di più. Ma è pur sempre una risposta. Seguiranno altri lanci suborbitali, molto importanti per collaudare l’efficienza del sistema. La capsula Mercury ha la forma conica di una campana, con un piccolo oblò e un abitacolo molto angusto.Più leggera, ma tecnicamente più evoluta e maneggevole della sovietica Vostok. Soprattutto consente un impatto meno traumatico al rientro, che avviene in mare (splash-down) e non sulla terraferma, attutito da grandi paracadute e ammortizzatori galleggianti. L’astronauta viene recuperato in elicottero, trasportato sul ponte di una portaerei e rumorosamente festeggiato dai marines.
Il 21 maggio 1961 Kennedy galvanizza l’America con il famoso discorso intriso di idealismo e orgoglio in cui indica la Luna come traguardo da raggiungere entro il decennio. Ha parlato la Grande Potenza. E un passo avanti decisivo avviene l’anno dopo, il 20 febbraio 1962, quando finalmente John Glenn è il primo americano in orbita. Spinto da un poderoso vettore Atlas intercontinentale a ossigeno liquido, Glenn compie tre giri attorno alla Terra e dimostra un eccezionale sangue freddo quando a Houston cominciano a dubitare della tenuta dello scudo termico della Mercury, una protezione in resina e ceramica destinata ad assorbire il calore dell’attrito al rientro in atmosfera. Si decide di non sganciare i retrorazzi, che contribuiscano a mantenere lo scudo termico ben fisso e aderente alle lamiere. Glenn manovra manualmente e compie un ammaraggio perfetto. Tornerà nello spazio a settant’anni. Sempre con il complesso Atlas-Mercury lo seguono Wallter Schirra (3 marzo 1962), Scott Carpenter (24 maggio 1962) e Gordon Cooper (15 maggio 1963), che con una permanenza in orbita di 34 ore batte il primato del sovietico Titov. Ma il 16 giugno 1963 Valentina Tereskova è la prima donna cosmonauta, mentre il 18 marzo dell’anno successivo è il sovietico Alexej Leonov a compiere la prima escursione extraveicolare.
Ma intanto la Nasa aveva messo in campo decine di nuovi candidati allo spazio, in vista del grande balzo alla luna. Prende avvio il nuovo progetto Gemini, che consentirà all’America di recuperare molto terreno. Si tratta di una navicella molto evoluta e sofisticata: più grande e manovrabile della Mercury, è in grado di portare nello spazio due uomini, può cambiare rotta, può inseguire e agganciarsi ad altri veicoli spaziali, può consentire attività umane extraveicolari. Il vettore è il Titan, un potente missile militare intercontinentale a combustibile solido. I voli con equipaggio sono in tutto dieci: la Gemini si produce nelle evoluzioni più audaci, sale, scende, cambia orbita. Durante il volo l’astronauta può aprire il portellone, uscire nello spazio, muoversi a piacimento attorno alla navicella e poi rientrare.Escursioni e manovre che sono già prove generali di Luna. Il ciclo della Gemini si chiude felicemente nel ’66. mentre l’idea più audace del progetto lunare Saturno-Apollo sta concretamente prendendo corpo. Sulla terra, intanto, la guerra fredda è sempre più fredda.
Il missile Saturno, alto 110 metri, è il più grande mai realizzato dall’uomo. Concepito da quel Wherner Von Braun che già con l’Explorer aveva dato all’America il suo primo satellite artificiale nel ’58 , è un vettore a tre stadi, con possenti motori a cherosene e idrogeno. L’Apollo, sistemato in alto sulla punta del razzo, è il convoglio che deve consentire agli astronauti l’arrivo e la discesa sulla Luna, e poi il ritorno alla Terra. E’ composto di tre parti: il cilindrico modulo di servizio, il conico modulo di comando dove alloggiano i tre piloti, e il Lem (Lunar Excursion Module), strano veicolo biposto con grandi zampe da ragno, destinato a calarsi dolcemente sul suolo lunare con due uomini in piedi, mentre il terzo astronauta, rimasto solo, circumnaviga la luna: in attesa di riagganciare poi lo stesso Lem con i colleghi al loro ritorno.
Ogni grande epopea ha i suoi caduti. Il 27 gennaio 1967 è un giorno di grave lutto. Gli astronauti Grissom, Chaffee e White, in cima al grande Saturno fermo sulla rampa di lancio, si trovano all’interno del modulo di comando per una simulazione di volo. Da un cavo elettrico scoperto scaturisce una scintilla: l’ambiente è saturo di ossigeno puro, e in un attimo tutta la cabina si infiamma I tre muoiono nel rogo. La tragedia, non certo l’unica nell’avventurosa esperienza dei viaggi spaziali, blocca il programma per otto mesi, durante i quali l’Apollo è ripassata al millimetro da cima a fondo. Poi riprendono gli esperimenti con e senza uomini a bordo, con ripetuti lanci in orbite terrestri e lunari.
Il 21 dicembre 1968 parte l’Apollo 8 con gli astronauti Bormann, Lovell e Anders. I primi due sono veterani della Gemini 7. Dopo qualche orbita di parcheggio attorno alla Terra puntano verso la Luna, che viene circumnavigata per 20 ore e accuratamente fotografata da vicino, per individuare sul terreno le zone meno accidentate e più adatte alla discesa, in vista delle missioni future. Il 27 dicembre Apollo 8 ammara felicemente, dopo un volo perfetto. Sono tempi difficili e di frustrazione nazionale: pesa il Vietnam, pesano le uccisioni dei due Kennedy e di Martin Luther King. Ma la grande avventura lunare dà nuovo stimolo all’orgoglio nazionale, che vede a portata di mano il traguardo già indicato dal presidente Kennedy. A dream come true, secondo il più classico spirito pionieristico americano.
L’Apollo 9 e 10 confermano, attraverso molteplici evoluzioni e operazioni di attracco, la perfetta manovrabilità del Lem, che arriva a spingersi a 15 chilometri dal suolo lunare. Ora tutto è pronto per il balzo decisivo verso quella che lo stesso Kennedy avrebbe chiamato la nuova frontiera.
16 luglio 1969: è il gran giorno. L’Apollo 11 decolla dalla Florida per la Luna. A bordo sono ancora in tre: Armstrong, Aldrin e Collins. Tutto si svolge perfettamente. Il 20 luglio il Lem – ribattezzato Eagle – con a bordo Armstrong e Aldrin, si stacca dal modulo di comando “Columbia”, dove Collins resta solo, e scende dolcemente verso la Luna. Gli ultimi passaggi sono drammatici. Il calcolatore di bordo, cento volte meno potente di un comune telefonino cellulare di oggi, indica per l’atterraggio un sito roccioso, scosceso, del tutto impervio. Neil Armstrong, con la consueta freddezza, prende i comandi manuali e guida a vista. Ha carburante per soli 20 secondi, ma riesce a individuare uno spazio pianeggiante più adatto alla discesa. Il Lem fa appena in tempo a toccare il suolo. L’annuncio di Neil alla base terrestre è asciutto e gelido: “Houston, qui Mare della Tranquillità, l’Aquila è atterrata.”
Il resto è già leggenda: Aldrin e Armstrong indossano le tute, e la vestizione in quell’angusto abitacolo li impegna per qualche ora. Poi, su tutti gli schermi del mondo, l’ombra nera del comandante si staglia controluce sulla scaletta. L’orizzonte è arido e bianco. Tutto è silenzio. I passi sono lenti, pesanti: gradino per gradino, cautamente. Finalmente ecco l’impronta dello scarpone sinistro sulla polvere grigiastra del terreno.E la storica frase: “E’ un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità.”
Invece è anche un grande passo per un uomo.Armstrong viene da una famiglia di origine scozzese e tedesca. Laureato in ingegneria aerospaziale, vanta 78 rischiosissime missioni in Corea sui jet della Marina: “Almeno sull’Apollo non ti sparano.” E’ il classico eroe tranquillo americano. Formazione da boy scout. Riservato, forse timido. L’altro, “Buzz” Aldrin, è un po’ il suo contrario. Espansivo e loquace, forse per compensare quella sua condizione un po’ crudele di eterno secondo. A Oriana Fallaci, che aveva conosciuto e intervistato a lungo molti astronauti della Mercury e della Gemini, Neil Armstrong non è simpatico: “Tra i 52 astronauti americani è colui che più di ogni altro possiede le virtù del robot”.Mentalità tecnica, positiva, molto quadrata: passava per un tipo freddo e calcolatore, del tutto disinteressato all’arte e alla letteratura. Di sé parlava pochissimo. Una volta disse soltanto: “Non sono romantico, non ho ambizioni personali”. Ma ogni tanto, per fortuna, la voce gli tremava.
Tra il 1969 e il ’75, dopo Armstrong, Aldrin e Collins, raggiungeranno la luna altri cinque equipaggi americani. Appassiona il mondo l’odissea dell’Apollo 13, che dopo un’esplosione a metà strada tra Terra e Luna, riesce con manovra audacissima a riportare a terra stremati ma salvi i tre piloti. Negli anni ottanta è la volta dello Shuttle, un po’ razzo un po’ aereo, che trasportando ogni volta sette astronauti consentirà l’assemblaggio in orbita dell’enorme stazione spaziale internazionale, la ISS, che tuttora sorvola la Terra con straordinari risultati scientifici. Gli Shuttle vanno su e giù, facendo la spola, mentre il telescopio spaziale Hubble scruta nuove lontanissime galassie con sconvolgenti effetti spaziotemporali. Il sistema solare è regolarmente perlustrato da decine di sonde automatiche russe e americane, tecnologicamente evolutissime. Ma dopo Armstrong la grande gara aveva già perso mordente: poi, col crollo del Muro, è finita del tutto. Nell’astronautica non c’è mai routine: sempre rischio, ma senza eroismo. Il mondo ha nuovi incubi. Quanto a Neil Armstrong, resta da dire che dopo l’esperienza dell’Apollo si allontana nell’anonimato per insegnare ingegneria aerospaziale all’Università di Cincinnati. Avventura chiusa, missione compiuta. Che altro?
Gian Luca Caffarena
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