Epoche. Anni 70, gli anni ruggenti degli hot pants


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jesus-jeansSe gli anni Sessanta sono stati quelli della minigonna, i Settanta sono gli anni degli hot pants. Già dal nome (letteralmente pantaloni bollenti) si intuisce la natura sexy e provocatoria di quest’indumento. I primi modelli furono realizzati in tela denim, ma via via vennero prodotti anche in cotone, nylon, fibre sintetiche, jeans e finanche in pelle. Nella sostanza l’indumento in sé copre a malapena dal bacino fino a qualche centimetro al di sotto dell’inguine, risaltando il fondoschiena e la gambe: indiscutibili centri di attenzione, più o meno pudica, di ogni uomo eterosessuale, da che mondo è mondo. Tutti ricordano un vecchio brano musicale che, non potendo all’epoca spingersi a citare l’altra, più prelibata, parte del corpo femminile, recitava: «Saran belli gli occhi neri, saran belli gli occhi blu, ma le gambe, ma le gambe a me piacciono di più. Saran belli gli occhi azzurri e il nasino un po’ all’insù, ma le gambe, ma le gambe sono belle ancor di più», [1].

Nei giornali nazionali all’avvento degli hot pants si sviluppò un interessante dibattito su chi poteva indossare questo non semplice indumento e in quale sua forma:   «Non sono tutti cortissimi gli hot pants della moda di oggi: non sono perciò tutti importabili, almeno per la maggior parte delle donne […] Fra le numerose proposte relative a questi calzoncini, sono da ricordare e quindi da tenere presenti, primi fra tutti, quelli moderati nelle misure perché solo se moderati essi potranno essere portabili. Non troppo corti e neppure naturalmente troppo aderenti: solo questi sono in breve gli hot pants da indossare. Vediamo adesso quelli vietati: i calzoncini quasi volgari, cioè cortissimi, cioè coloratissimi, cioè lucidissimi e quelli svasatissimi non saranno indicati in città.[…] Quelli da indossare in città non saranno neppure quelli “pop” con ornamenti di bocche e sigarette, di fiori e facce di negretti. A meno che chi li porta non abbia meno di 20 anni. Potranno essere permessi invece, a molte donne, quelli più ampi, a pagliaccetto, quelli a gonna-pantalone moderatamente svasati: quelli che sembrano minigonne a pieghe ampie o a plissettature o che comunque somigliano di più ad una minigonna che ad un paio di pantaloncini» [2].

È utile far notare come a distanza di pochi anni, la minigonna si fosse imposta ormai nell’immaginario, tanto da rappresentare quasi un modello rassicurante, capace di “sdoganare” il nuovo, più provocante indumento, che risaltava come mai prima di allora le forme (ma soprattutto le curve), laddove quest’ultimo poteva confondersi col primo. Anche se, la dissimulazione totale dell’indumento, restava lo stratagemma più consigliabile:  «Accanto al calzoncino e con il calzoncino, potranno essere cercate soluzioni ancora più accessibili: l’hot pants sarà indossato sotto una gonna in parte aperta o sotto un abito chemisier con la gonna da poter abbottonare o sbottonare. Il mini-pantalone verrà così ad esser moderato e meno “pericoloso” perché in parte, e magari in gran parte, resterà nascosto» [3].

È evidente, da quello che abbiamo appena letto, che, al loro apparire, gli hot pant, data la loro “pericolosità”, scatenarono più di una reazione nell’Italia perbenista che già sul finire del decennio precedente, aveva visto dilagare, senza freni, mode e trasgressioni d’ogni genere. Non mancarono episodi pittoreschi, come vedremo, ma di certo erano gli ultimi sussulti di una mentalità destinata ad essere inesorabilmente travolta dai tempi.

Un primo caso di “repressione”  al dilagare del nuovo indumento, fu sicuramente quello che, il 14 agosto 1971, capitò alla bionda turista danese di 28 anni, Lise Wittrock da Copenaghen. Il magistrato palermitano Vincenzo Salmeri, 52 anni, sposato, figli già adulti, «di bassa statura e volto espressivo da siciliano», dirigente le sezioni della pretura penale presso il tribunale del capoluogo dell’isola, mentre passeggiava tranquillamente la vigilia di Ferragosto nella centralissima piazza Politeama, si era imbattuto in alcune giovani straniere in pantaloncini o in minigonna. Alla vista dell’avvenente Lise, aveva immediatamente chiamato due vigili urbani e dopo essersi qualificato, li aveva invitati a fermare la giovane e ad accompagnarla al più vicino commissariato di pubblica sicurezza, dove la turista danese, incredula, era stata denunciata in base all’art. 726 del codice penale concernente gli atti contrari alla pubblica decenza; reato che prevedeva un mese di arresto ovvero un’ammenda da 4 a 40 mila lire.  La giovane turista ad un amico aveva confidato: «Sono scandalizzata non mi aspettavo questo trattamento. Ero con alcune amiche anch’esse in hot-pants o minigonna, ma quel signore se l’è presa soltanto con me. Forse perché ho le gambe belle? Che male faccio a mostrarle se non c’è nulla di immorale?» [4]. In effetti alcuni testimoni presenti confermarono che le gambe della danese «non offendevano affatto la vista»…

I giorni successivi i giornali scrissero, erroneamente, che la giovane danese era immediatamente tornata in patria per sfuggire le ire e le sanzioni. Salmeri ai giornalisti attirati dalla succulenta notizia aveva così dichiarato: «“Se dovesse tornare inevitabilmente dovrebbe affrontare il procedimento penale”. Ma perché l’ha fatto? Il magistrato non ha avuto reticenze e ha confidato ai cronisti: “Primo perché gli stessi commenti della gente erano eloquenti. Secondo perché in qualità di magistrato ho il dovere non appena si verifica un reato, d’intervenire: infatti, le si intravedevano i glutei e io sono molto sensibile alla sanità morale della cittadinanza”. Tuttavia il dott. Salmeri ha affermato che sarebbe intervenuto ugualmente anche se non fosse stato un magistrato: “L’avrei fatto lo stesso — ha osservato — se fossi stato un qualunque cittadino, con i mezzi consentiti”. “Il mio è stato un atto d’amore verso i giovani con i quali vivo a stretto contatto”» [5].

Non pago, qualche giorno dopo il solerte pretore palermitano aveva promosso un’azione penale contro una casa editrice danese, responsabile di spedire in Sicilia riviste pornografiche, interessando del caso addirittura l’Interpol, e incaricando la polizia locale di identificare gli acquirenti palermitani delle riviste perché fossero a loro volta denunciati. Sulla vicenda intervenne con un editoriale su La Stampa di Torino, nella sua rubrica “Il nostro Stato”, che curava dal 1969, nientemeno che Carlo Casalegno [6], denunciando la sproporzione e l’inutilità di tali interventi:  «Che importa se girano a vuoto le macchine della polizia, impegnata contro forme di criminalità più pericolosa, e della giustizia, sommersa da laute pratiche arretrate? La moralità italiana è difesa, i princìpi sono salvi […] una giustificazione, sia pure discutibile, d’interesse sociale, […] è difficile [da] trovare nella denuncia contro la turista danese. Qui mancano, ci sembra, sia la realtà del reato (portare i mini-calzoncini di piena estate in un’isola del basso Mediterraneo è un atto osceno?), sia la possibilità che l’eventuale condanna sia approvata dalla coscienza comune dei cittadini; ed una denuncia che affondi nel ridicolo, susciti attorno ad un caso penale un clima da pochade, ricordi troppo da vicino il processo contro la “mossa” di Nini Tirabusciò [7], non giova al prestigio della legge. […] Il pretore palermitano non è né il primo, né il solo a pensare che la “sanità morale” della stirpe italica debba essere difesa con una crociala contro le minigonne, i costumi in due pezzi, l’”inverecondia” femminile, le riviste “scollacciate”, la propaganda per la pillola, l’indulgenza per l’amore libero. Senza risalire oltre questo dopoguerra, ricordiamo un ministro dell’Interno che mandava agenti e carabinieri sulle spiagge per dare la caccia alle bagnanti in bikini, ed i sequestri d’un manifesto culturale con la Venere del Botticelli o di manichini da vetrina dall’anatomia troppo esatta, ed il processo contro gli studentelli redattori della Zanzara[8]. Il dottor Vincenzo Salmeri non è certo un isolato, né si può mettere in dubbio l’onestà delle sue intenzioni, la rettitudine della sua coscienza. Ma la sua iniziativa mi sembra inaccettabile proprio perché rispecchia un’ideologia dura a morire: la confusione tra peccato e reato, tra moralità sessuale e moralità tout court, e l’illusione che la legge possa e debba imporre una moralità (confessionale) di Stato, e difendere con il codice o la censura l’ideale (religioso) della castità. Codice e censura. Vorrei evitare ogni equivoco: non difendo la sbracatezza, non credo nelle virtù sociali del naturismo o nell’efficacia rivoluzionaria della pornografia, non identifico la libertà col diritto d’imporre anche a chi li rifiuta spettacoli osceni. Personalmente disprezzo esibizionisti, pornografi e falsi profeti; non mi piace chi confonde le strade di una città con gli stabilimenti balneari, e non prendo per buono il trucco da magliari degli intellettuali-mercanti che vorrebbero liberarci dalle psicosi e dalla schiavitù capitalistica mandandoci a vedere Oh Calcutta![9] o farci leggere l’Histoire d’O [10]. Ma non credo che la pornografia sia l’attentato più grave contro la “sanità morale” dei cittadini, che il codice debba servire ad imporre la tradizionale moralità cattolica, che la censura difenda un primario interesse collettivo, o che polizia e magistratura, già sovraccariche di lavoro per la lotta contro una criminalità ben più pericolosa, debbano impegnarsi anche a misurare i costumi da bagno e le effusioni dei fidanzati. Sarebbe di maggior utilità uno sforzo massiccio contro l’abitudine di portare armi, farne commercio e adoperarle» [11].  Per la cronaca, la graziosa Lise – poiché Salmeri aveva richiesto all’Interpol di rintracciare il suo domicilio in Danimarca – si presentò spontaneamente negli uffici della Procura il 24 agosto insieme al suo avvocato e seguita da numerosissimi curiosi e fan – infatti non aveva ancora abbandonato la Sicilia come si era creduto in un primo momento. Per l’occasione aveva evitato di presentarsi in hot pant, pur indossando una minigonna leggermente più morigerata, di poco al di sopra delle ginocchia. Fu comunque condannata ad una ammenda, che però eluse facendo, questa volta per davvero, le valige e tornandosene a casa.  Sulle orme di Salmeri e sempre in Sicilia, si mosse l’estate successiva una altro pretore, quello di Ragusa, il dott. Carlo Scribano. A farne le spese questa volta fu una bella turista tedesca sorpresa, come si legge nel decreto penale emesso a suo carico, «a sedere in luogo pubblico in atteggiamento contrario alla pubblica decenza con il tenere le gambe accavallate si da mostrare interamente nuda la coscia sinistra». La sventurata Ingrid Krause, 34 anni, da alcuni giorni ospite di una famiglia, si era tranquillamente «seduta con alcuni amici a uno dei tavoli esterni di un bar di via Roma e stava mangiando un gelato quando le sue gambe accavallate hanno attirato l’attenzione del magistrato, di passaggio sulla via. Il pretore ha chiesto l’intervento della polizia femminile e ha fatto invitare la straniera in questura». Condannata per direttissima a un’ammenda di diecimila lire, la turista informò immediatamente il consolato tedesco a Palermo che a sua volta interessò l’assessorato regionale al turismo, il quale incaricò i funzionari dell’ente provinciale per il turismo di Ragusa di dare tutta l’assistenza alla sventurata ospite. Insomma un vero e proprio caso diplomatico… [12].

Ora tutto ciò ci fa sorridere, ma questa era l’Italia di quel tempo, tra la metà degli anni ’60 e i primissimi anni ’70.

È così che nella primavera del 1973, esplose un altro clamoroso caso che aveva al centro i famigerati hot pant. Ci riferiamo al caso dei jeans Jesus, che furono il primo marchio italiano in assoluto di jeans, prodotto a partire dal 1971 dal Maglificio Calzificio Torinese SpA. La società piemontese aveva affidato all’allora giovane e semi sconosciuto fotografo Oliviero Toscani e al pubblicitario Emanuele Pirella, una campagna promozionale, che finì addirittura per far gridare alla blasfemia.

Giocando sul nome della marca dei jeans e associata all’immagine provocante di un paio di hot pants visti da dietro, quindi con il fondoschiena di un’avvenente e giovanissima modella in evidenza, veniva usata come slogan una frase che rimandava a ben altri contesti, addirittura evangelici: “Chi mi ama mi segua”. Per la cronaca, il sedere in questione era quello della modella americana Donna Jordan, al tempo compagna di Toscani.

Un’altra foto-manifesto prodotta per la stessa campagna, su cui campeggiava lo slogan-comandamento: “Non avrai altro jeans all’infuori di me”, ritraeva la stessa modella questa volta vista di fronte con i jeans sbottonati al limite dei peli pubici.  A reagire con veemenza a questo, che rimane uno degli eventi più importanti della storia italiana della pubblicità, furono in tanti e non solo i circoli conservatori e bigotti.  Anche l’organizzazione dei pubblicitari condannò i manifesti. Il giurì del codice di lealtà pubblicitaria, il 28 maggio 1973, si pronunciò su richiesta del comitato di accertamento, condannando la campagna in quanto contraria ad una norma dell’articolo secondo cui la pubblicità non si «esprime mediante rappresentazioni di situazioni che, secondo il gusto e le sensibilità correnti, possono ritenersi volgari». Il giurì si espresse anche in merito agli equivoci che l’accostamento dello slogan e del marchio richiamavano, definendo tutto ciò contrario ad uno degli scopi principali della pubblicità, indicato nella premessa del codice di lealtà, ovvero di essere servizio socialmente utile per l’informazione del consumatore.  Il comunicato del giurì si concludeva con la richiesta di sospensione della campagna: «La pubblicità in parola certamente non evita ma si compiace di ricercare o di adoperare raffigurazioni, espressioni, accostamenti e significati che possono screditare la pubblicità in sé e in generale. Il giurì ha pertanto vietato la prosecuzione dell’attività pubblicitaria così riprovata».

 Nel bailamme non poteva mancare di certo anche un intervento autorevole e diretto da parte della Chiesa e ciò avvenne attraverso L’Osservatore romano con un trafiletto non firmato, e intitolato“Stupirsi?”, pubblicato nell’edizione del 7-8 maggio 1973.  A questo intervento del quotidiano vaticano però rispose Pier Paolo Pasolini in persona, dalle colonne del Corriere della Sera, il 17 maggio 1973, con un articolo intitolato “Analisi linguistica di uno slogan – Il folle slogan dei jeans Jesus”.  «Lo slogan […] deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.

La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte […] Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans “Jesus”: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità – subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte – faceva troppo ragionevolmente prevedere».

Pasolini riteneva che la Chiesa avesse fatto un patto col diavolo, ovvero con lo Stato borghese, accettandolo «al posto di quello monarchico o feudale – concedendo ad esso il suo consenso e il suo appoggio senza il quale, fino a oggi, il potere statale non avrebbe potuto sussistere; per far questo la Chiesa doveva però ammettere e approvare l’esigenza liberale e la formalità democratica: cose che ammetteva e approvava solo a patto di ottenere dal potere la tacita autorizzazione a limitarle a sopprimerle […] È vero: […] alle lamentele patetiche dell’articolista dell’Osservatore segue tuttora immediatamente – nei casi di opposizione “classica” –  l’azione della magistratura e della polizia. Ma è un caso di sopravvivenza. Il Vaticano trova ancora vecchi uomini fedeli nell’apparato del potere statale: ma sono, appunto, vecchi […] Sembra folle, ripeto, ma il caso dei jeans “Jesus” è un spia di tutto questo. Hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano – probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi – di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale […] Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicitàè un “nuovo valore” nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile. Ma l’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo con cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi presumibilmente, quello dell’intero mondo tecnologico. Lo spirito blasfemo di questo slogan non si limita a una apodissi, a una pura osservazione che fissa la espressività in pura comunicatività. Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata (il cui modello è l’anglosassone “Cristo super-star [13]): al contrario, esso si presta a un’interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi nello slogan i caratteri ideologici e estetici della espressività […] Lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi – sia pur incosciente – che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo. L’articolista dell’Osservatore questa volta sì è davvero indifeso e impotente: anche se magari magistratura e poliziotti, messi subito cristianamente in moto, riusciranno a strappare dai muri della nazione questo manifesto e questo slogan, ormai si tratta di un fatto irreversibile anche se forse molto anticipato: il suo spirito è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori». Un anno dopo, la Mct commissionò il sequel della campagna pubblicitaria dei jeans Jesus, e Pasolini tornò sull’argomento con un breve saggio dal titolo “Sviluppo e progresso” che oggi si può leggere in “Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società” (Mondadori, I Meridiani, 1999). Lo scrittore friulano tornava sull’argomento ribadendo fondamentalmente lo stesso concetto:

«La dissociazione che spacca ormai in due il vecchio potere clerico-fascista, può essere rappresentato da due simboli opposti, e, appunto, inconciliabili: “Jesus” (nella fattispecie il Gesù del Vaticano) da una parte, e i “blue-jeans Jesus” dall’altra. Due forme di potere l’una di fronte all’altra: di qua il grande stuolo dei preti, dei soldati, dei benpensanti e dei sicari; di là gli “industriali” produttori di beni superflui e le grandi masse del consumo, laiche e, magari idiotamente, irreligiose.Tra l’”Jesus” del Vaticano e l’”Jesus” dei blue-jeans, c’è stata una lotta. Nel Vaticano –  all’apparire di questo prodotto e dei suoi manifesti – si son levati alti lamenti. Alti lamenti a cui per solito seguiva l’azione della mano secolare che provvedeva a eliminare i nemici che la Chiesa magari non nominava, limitandosi appunto ai lamenti. Ma stavolta ai lamenti non è seguito niente. La longa manus è rimasta inesplicabilmente inerte. L’Italia è tappezzata di manifesti rappresentanti sederi con la scritta “chi mi ama mi segua” e rivestiti per l’appunto dei blue-jeans Jesus. Il Gesù del Vaticano ha perso. Ora il potere democristiano clerico-fascista, si trova dilaniato tra questi due “Jesus”: la vecchia forma di potere e la nuova realtà del potere…».  Eh sì, formidabili quegli anni, quando anche un calzoncino di jeans poteva essere elemento attivo di uno snodo storico e sociale senza precedenti…

Già, formidabili quegli anni, anche se l’accezione latina, dove formidabilis sta per terrificante, occorrerà declinarla per ben altri fenomeni. Finché ci si limita, come in queste cronache e commenti, a glutei e ad ipocrite levate di scudi, tutto torna e rimane in bocca al più un senso di nostalgia e di tenerezza.

Formidabili quegli anni…

Gabriele Paradisi

 

 

 

Note

[1] Ma le gambe (1938), testo e musica di Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anzi, fu un successo di Enzo Aita e del Trio Lescano, ripreso successivamente anche dal Quartetto Cetra.

[2] c.b., Modi possibili e impossibili per indossare gli hot-pantss, La Stampa, 26 marzo 1971.

[3] Ibidem.

[4] La danese a Palermo Troppo nuda per il pretore, La Stampa, 17 agosto 1971.

[5] a. r., Pretore denuncia una turista che passeggiava in hot-pantss, La Stampa, 15 agosto 1971.

[6] Carlo Casalegno per via dei numerosi articoli che condannavano la lotta armata, fu oggetto di un attentato il 13 novembre 1977. Un commando brigatista formato da Raffaele Fiore (che sarà anche nel gruppo di fuoco di via Fani), da Patrizio Peci (primo pentito di peso delle Br), Piero Panciarelli e Vincenzo Acella, lo ferirà a morte nell’androne di casa. Morirà dopo 13 giorni di agonia il 29 novembre 1977. Le parole conclusive del suo articolo citato («Sarebbe di maggior utilità uno sforzo massiccio contro l’abitudine di portare armi, farne commercio e adoperarle»), suonano alla luce della sua tragica fine ancora più drammatiche.

[7] Ninì Tirabusciò è una nota canzone napoletana scritta nel 1911 da Salvatore Gambardella e Aniello Califano. Per la prima volta venne interpretata da Gennaro Pasquariello, ironia della sorte, al teatro Politeama di Palermo, ovvero proprio nei pressi del luogo dove la giovane danese sarà fermata nell’agosto 1971.  La canzone venne poi ripresa da numerosi interpreti tra cui Angela Luce. Il regista Marcello Fondato trasse l’ispirazione da essa per il film del 1970 Ninì Tirabusciò la donna che inventò la mossa, con Monica Vitti.

[8] La Zanzara era il giornalino (fondato nel 1945) degli studenti milanesi del liceo “bene” di Milano, il Parini. Tre ragazzi e precisamente Marco Sassano, Marco De Poli e Claudia Beltramo Ceppi, decisero di realizzare un’inchiesta fra le studentesse dell’istituto. Per l’esattezza i tre volevano aprire «un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso». L’inchiesta venne pubblicata il 14 febbraio 1966 e immediatamente scatenò uno scandalo di proporzioni enormi. Le risposte delle studentesse erano di questo tenore: «Nei rapporti pongo limiti solo perché non voglio correre il rischio di avere delle conseguenze. Ma se potessi usare liberamente gli anticoncezionali, non avrei problemi di limiti», oppure «Entrambi i sessi hanno diritto ai rapporti prematrimoniali ». Concetti che oggi ci sembrano assolutamente normali e condivisibili, ma nel 1966 era inconcepibile che dei ragazzi potessero affrontare le tematiche del sesso in questi termini. Anche il movimento di Don Giussani Gioventù studentesca (Gs), che sarebbe diventato nel 1969 Comunione e Liberazione (Cl), denunciò «l’offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune». La questione sconfinò ben presto in ambito giudiziario. I tre ragazzi vennero denunciati il 16 marzo 1966 e il giudice Pasquale Carcasio, appellandosi ad una legge fascista del 1934, addirittura chiese ai tre ragazzi (la ragazza si oppose) di spogliarsi durante l’interrogatorio al fine di rilevare eventuali «tare fisiche e psicologiche». In molte scuole italiane si tennero assemblee (“primi vagiti di un sessantotto ancora lungo da venire e troppo breve da dimenticare” – Antonello Venditti, Compagno di scuola, 1975) al grido di «finiremo tutti nudi o tutti muti». Anche il mondo politico si divise. Democrazia Cristiana (Dc) e Movimento Sociale Italiano (Msi) si schierarono contro gli studenti, mentre a favore si schierarono i partiti e gli intellettuali di sinistra. Il giudice Carcasio venne allontanato e il caso passò al procuratore capo, Oscar Lanzi, che chiese il rinvio a giudizio dei giovani, colpevoli di corruzione di minorenni e stampa oscena. Al processo si presentarono centinaia di giornalisti di tutto il mondo. «Il presidente del tribunale, Luigi Bianchi D’Espinosa, dopo aver esortato i tre studenti a non montarsi la testa per la popolarità acquisita, li assolse con formula piena. I giornali di tutto il mondo, da Le Monde al New York Times, annunciarono in prima pagina la vittoria degli studenti del Parini come un grande segno di cambiamento in Italia» (http://www.liceoparini.org/parini/giornalini/zanzara/68.htm) .

[9] Il musical Oh, Calcutta! venne rappresentato per la prima volta in un teatrino di Brodway, l’Eden Theatre,  il 17 giugno 1969, dunque nel pieno della cosiddetta “rivoluzione sessuale”. L’anno successivo lo spettacolo sbarcò a Londra, ottenendo contemporaneamente successo di pubblico e scandalo. La regia era a cura del critico inglese Kenneth Tynan, il quale sosteneva che l’eros era il fine dell’arte. Lo spettacolo, ritenuto “il musical più trasgressivo, irriverente, provocante della storia del musical”, si sviluppava in una serie di episodi tutti ovviamente incentrati con molta ironia sul sesso, facendo ampio uso di nudi integrali sia maschili che femminili. Nel 1973 Martin G. Aucoin ne trasse una riduzione cinematografica di scarso successo.

[10] Histoire d’O è un romanzo erotico scritto nel 1954 con lo pseudonimo di Pauline Réage, dalla scrittrice francese Anne Desclos (1907- 1998) conosciuta anche con l’altro pseudonimo di Dominique Aury. Nel 1975 il regista Just Jaeckin ne trarrà una pellicola di successo, interpretata da una splendida Corinne Clery. In Italia il film arrivò verso la fine di giugno del 1976.

[11] Carlo Casalegno, Moralità e manette, La Stampa, 24 agosto 1971.

[12] Pudore e buon costume in Sicilia, La Stampa, 5 luglio 1972.

[13] Il riferimento è all’opera rock Jesus Christ Superstar realizzata da Andrew Lloyd Webber con testi di Tim Rice, uscita su album doppio nel 1970. Il 12 ottobre 1971 l’opera musicale venne rappresentata a teatro a Brodway e nel 1973 il regista Norman Jewison ne realizzò una pellicola che riempì le sale cinematografiche di tutto il mondo. Il film raccontava gli ultimi giorni della vita di Gesù in un modo assolutamente originale ma che per la qualità delle interpretazioni e delle musiche non sollevò polemiche o distinguo nemmeno negli ambienti più ortodossi della Chiesa.  Gli interpreti sono un gruppo di hippies che arrivano con un pullman e con quello stesso pullman dopo aver caricato materiale e valigie se ne andranno. Oltre alla figura di Gesù, interpretato dal cantante Ted Neeley, emergono sopra tutti Giuda, il cantante di colore Carl Anderson (1945-2004) e Maddalena, la cantante hawaiana Yvonne Marianne Elliman.



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