Mi trovavo nell’isola di Penang, in Malaysia, per discutere con un cliente, grande amico da anni, di un nuovo impianto.
Premetto che ci eravamo dati appuntamento in una fiera a Bangkok, ma nel tempo libero si parlava sempre di pesca. In un mercatino notturno, acquistammo delle divise da campo, un “surplus” militare, dei “Green Berets” americani, complete di berretto senza stemma, cinturone, stivaletti e pugnale, che avremmo usato nelle nostre incursioni nella jungla per andare a pescare il “tigerfish”, un ottimo pesce molto combattivo.
Infilammo le divise nel cofano della macchina dell’amico, coperte dalle valige e cataloghi, per non farci porre troppe domande alle dogane, e partimmo per Penang, un viaggio di tre giorni, con sosta a Kuala Lumpur, in un’altra sua fabbrica.
Decidemmo di andare a pesca il sabato successivo, così avremmo anche provato i nuovi vestiti “a prova di spine”. Non era la prima volta che andavamo a pesca insieme, generalmente andavamo non troppo lontano, invece questa volta il mio amico volle andare più lontano: dopo un’ora e più di macchina, dovevamo attraversare una piantagione di alberi della gomma, dove avremmo posteggiato la macchina, poi avremmo attraversato circa un chilometro di jungla per raggiungere il fiumiciattolo.
La nostra attrezzatura era particolare: vagare per la jungla con le canne era complicato, dato che in una mano avevamo sempre il “parang” per aprirci bene la strada, per cui io portavo a tracolla una balestra da 50 libbre e il mio amico un arco “compound”. In questo modo riuscivamo a prendere pesci di una certa dimensione in numero limitato, che poi mangiavamo, per salvaguardare la Natura, secondo il nostro pensiero.
La sera prima di partire andammo a salutare il padre, che conoscevo da tempo, e il mio amico gli disse che saremmo andati a pescare, il padre chiese dove e quando il mio amico lo spiegò, il padre ci disse che eravamo matti, in quell’area c’erano guerriglieri comunisti! In effetti, ogni tanto incendiavano qualche piantagione di proprietà del latifondo, ma eravamo sicuri che ci avrebbero lasciato in pace.
La mattina successiva partimmo molto presto, la piantagione della gomma era lontana; quando finalmente arrivammo, ci armammo e lasciammo la macchina parcheggiata. Mi soffermai un attimo a guardare un paio di alberi della gomma, con l’incisione nella corteccia da cui colava la resina della gomma che veniva raccolta da un contenitore legato all’albero, veramente interessante, anche per l’odore pungente che emanava. C’inoltrammo nella jungla.
Non è facile camminare nella jungla formata dalla foresta pluviale: bisogna guardare per terra e per aria e sui fianchi, bisognerebbe avere 100 occhi! C’è una temperatura sui 35° costanti e un’umidità del 100%. A volte, dalle foglie cadute che marciscono, si leva una nebbiolina che arriva addirittura alle ginocchia, rendendo veramente pericoloso il procedere.
Bisogna guardare per terra perché si potrebbe calpestare qualche animale o inciampare in un nido di formiche dalle pareti cedevoli, bisogna guardarsi ai lati per le dimensioni di certi aculei e bisogna guardare davanti perché da un ramo basso poteva colpire un serpente, che è quello che ci capitò.
Dal momento che è molto stancante usare il “parang” per aprirsi la strada, procedevamo in fila, alternando la posizione ogni 15 minuti: il primo apriva la strada e il secondo indicava la direzione con la bussola.
A un tratto, mentre il mio amico si muoveva a fatica destreggiandosi nelle radici di un grande albero, mi accorsi che sopra la sua testa, da un ramo, si allungava in fuori un serpente boa; se avvertivo il mio amico probabilmente avrei perso tempo e sarebbe stato morso, lo afferrai al cinturone per fermarlo con una mano e con l’altra lanciai il “parang” come un coltello da lancio. Ebbi fortuna: inchiodai il serpente contro l’albero, praticamente tagliato in due. Il mio amico diventò di un colore verdastro in viso per il passato pericolo, tagliò la testa del serpente e mi restituì il mio “parang”, ringraziandomi con calore.
Proseguimmo in avanti, il mio amico volle condurre ancora un poco, mi disse che come secondo andavo proprio bene! Dopo un poco però, mi accorsi che era stanco al braccio per tagliare i rami che c’impedivano il passaggio, io mi stancavo meno perché sono ambidestro; avevamo affilato le lame dei “parang” il giorno precedente e ora tagliavano quasi come rasoi! Presi la prima posizione, secondo la mappa del mio amico eravamo quasi arrivati.
Sentii a un tratto un rumore di acqua, mi diressi in quella direzione con rinnovato vigore, tra le foglie s’intravvedeva uno slargo, sabbia, acqua, eccolo finalmente! Mi girai per dirlo al mio amico, ancora pochi metri e saremmo arrivati sulla riva!
Due palme e un tronco caduto mi dividevano dalla riva, m’infilai in mezzo alle palme e posi il piede sul tronco caduto che si mosse, per non perdere l’equilibrio mi appoggiai alla palma: un’estremità del tronco si mosse violentemente e colpì la palma, non era un tronco, era un coccodrillo lungo circa tre metri! Girò anche la testa con forza con la bocca spalancata e i dentacci sporgenti, per fortuna anche la testa fu bloccata dal tronco dell’altra palma! Corsi indietro gridando al mio amico: “Be careful, crocodile!” anche lui si mosse velocemente indietro gridando nella sua lingua malese : “Buaya! Buaya!”
Non sentendo rumore ci fermammo perché avevamo il fiatone, il mostro non c’inseguiva, per fortuna, le armi in nostro possesso non erano adatte per difendersi dall’attacco di un coccodrillo arrabbiato perché con il mio dolce peso gli ero montato sulla schiena!
Tornammo scornati e stanchi, andare nella jungla stanca molto.
Questo viaggio ha un finale divertente: avrei dovuto partire il giorno dopo per Hong Kong, ma, visto che non avevamo pescato, decisi di andarci possibilmente in giornata. Le valige erano pronte, avrei dovuto cambiarmi, fare una doccia e lasciare la divisa dei “Green Berrets” al mio amico. Telefonammo all’aeroporto, c’era un aereo ma dovevamo partire subito, il mio amico disse di non cambiarmi, avrei lasciato a lui il mio pugnale.
Partimmo subito, m’imbarcai prima che chiudessero il cancelletto, la “hostess” mi guardava in modo strano, mi accorsi di puzzare un poco e il vestito militare era leggermente sporco, anche del sangue del serpente perché avevo pulito la lama sporca nei calzoni.
Mentre decollavo, il mio amico telefonava a Hong Kong, al prestigioso hotel dov’ero prenotato, il famoso “Peninsula”, dicendo che sarei arrivato in anticipo, la sera stessa.
Dormicchiai durante il volo di poco più di 3 ore, atterrammo come sempre con emozione all’aeroporto “Kai Tak”, che era sul mare ma, a causa del vento, passammo attraverso le case ed essendo sera, si vedevano le TV accese.
Passai senza problema al controllo passaporti, anche se controllarono sul PC se avevo pendenze, alla dogana, vedendomi in divisa, pur senza mostrine, mi aprirono borsa e valigia per vedere se avevo armi. Mi lasciarono passare, misi i bagagli sul carrello e scesi nella galleria dove si trovavano i mezzi degli alberghi.
Trovai subito un fattorino dell’albergo con il mio nome scritto su una lavagnetta, prima sorpresa: mi aspettavo la classica Mercedes che faceva servizio, invece arrivò una “Rolls Royce Silver Shadow” che si fermò davanti a me. Mi fecero accomodare e partimmo, come sempre in macchina trovai da bere, il giornale e il meraviglioso asciugamano surgelato per asciugarmi il sudore.
In poco tempo arrivammo all’albergo, era sera, come sempre la città brillava di luci, ho sempre amato Hong Kong; scesi dalla macchina e il solito portiere indiano mi aprì la porta e mi fece entrare nella lobby.
Sorpresa! C’era un “party” ed era pieno di uomini in smoking e signore in abito da sera tutte ingioiellate; evidentemente aspettavano qualcuno e quando entrai, così, in divisa, si zittirono e mi guardavano tutti.
Ero imbarazzato, ero sporco e puzzavo ma, sentendomi osservato, mi raddrizzai e “petto in fuori e pancia in dentro” attraversai la sala a passo marziale.
Mi aspettavano con le valige per accompagnarmi alla stanza, lasciai passaporto e carta di credito e dissi che sarei passato dopo a ritirarli.
Quel bagno caldo che mi feci fu uno dei più piacevoli della mia vita, inviai la divisa in lavanderia e mi feci portare uno spuntino leggero, poi andai a letto.
Sobbalzai tutta la notte pensando al coccodrillo….
Sandro Emanuelli