Dalla Venere di Milo alla Merda d’Artista


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Lettera al Direttore – L’evoluzione del Bello

Carissima, chiedendomi un pezzo sulla Bellezza – arte, estetica, gusto – mi hai proprio fregato. Non sono un filosofo e non sono bello – tutt’al più, con qualche infimo espediente, avrei forse potuto apparire interessante fino a qualche anno fa. Come Direttore del giornale potevi commissionarmi un fondo serioso sui destini dell’umanità, o qualche pungente elzeviro di costume e critica sociale, dove vai sul sicuro e ti senti importante. E poi: si fa presto a dire bello! C’è il bello della diretta, il bel tenebroso… Poi c’è il Bello Dentro. Non è il mio caso. Qualche decina d’anni fa, come purtroppo saprai, ebbi a trascorrere un breve, sgradevolissimo soggiorno in una struttura circondariale – in via del tutto cautelare, beninteso. Be’, non mi sentivo affatto bello dentro. Il bello, caso mai, fu all’uscita, dopo tredici soffertissimi giorni. Insomma, bello fuori: la libertà stessa è bella, ancorché impegnativa.

E poi: che tipo di bello? Grace Kelly o Uma Thurman? Il melodico o il rock? Il tempestoso Beethoven o il salottiero Mozart? In tutti i casi, “bello è ciò che piace”: sembra un ovvio luogo comune, ma è da attribuire a San Tommaso. Detto tra noi, da un Padre della cristianità ci si poteva aspettare qualcosa di più.

Comunemente, si sa, viene stabilito un nesso tra estetica ed etica, nel senso che ciò che è bello è quasi sempre anche buono, giusto e utile. Pare che Dio stesso fosse molto compiaciuto di quanto aveva appena creato, vedendo che il tutto era “bello e buono” : kalòs kai agathòs in greco (Genesi). Tuttora, del resto, si insiste molto sulla funzione etico-sociale dell’arte. Dalla pittura Renato Guttuso era Premio Lenin al cinema o alla canzone cosiddetta di denuncia. Personalmente, piuttosto, propenderei molto crocianamente per l’arte fine a sé stessa: ars gratia artis, appunto. Ovvero “espressione lirica compiutamente espressa”, senza scopi diversi oltre la sua stessa bellezza. Che altro? Un romanzo pedagogico o, come si dice, di alto valore civile, rischia sul piano letterario di apparire comiziale o banalmente didattico. Tanto vale, allora, un onesto manifesto. Rispetto a un inno epico o marziale, la canzone d’amore e la composizione lirica hanno il pregio di rinunciare a messaggi solenni: “l’unico autorizzato a recare messaggi è il postino”, ammoniva Alfred Hitchcock, il mitico mago del brivido. Se pensiamo al Realismo Socialista è facile immaginare grandiose effigi di metalmeccanici in corteo che agitano vessilli e simboli. Mentre lo stesso soggetto, realizzato da un Manet, potrebbe rappresentare – immagino il titolo – gli Champs Elysées al tramonto: in fondo, un assembramento indistinto tra i bagliori rossicci della sera parigina. Non è il soggetto, ma il tocco della pennellata a fare il dipinto. Forse un marxista ortodosso – ce ne sono ancora, malgrado tutto – vedrebbe nella Gioconda un tipico prodotto della lotta di classe al tempo del Rinascimento. Ma a ogni pesantezza ideologica Monna Lisa risponde con l’ineffabile leggerezza del suo sorriso. Perché l’arte è anche mistero: definirla è ridurla. Si è anche detto che la bellezza salverà il mondo, Non credo, perché non è di massa.

Per Stendhal la bellezza è “promessa di felicità”. Per Thomas Mann “trafigge” come la freccia di Cupido: tant’è che nella Morte a Venezia la figura del povero Gustav von Aschenbach, docente universalmente onorato e di severa impostazione culturale, si scompone fino al disfacimento di fronte alla radiosa grazia di un seducente giovinetto. Anni fa, io stesso – testimonianza inedita e un po’ imbarazzante – di fronte alla Medusa del Caravaggio ebbi agli Uffizi una violenta crisi psicosomatica di panico, tra vertigini e tachicardia. La magnifica ferocia di quello sguardo mi aveva sconvolto. L’universo precipitava, la realtà tutta si scomponeva, fino a farmi percorrere di corsa a ritroso la Galleria, nella silenziosa perplessità della mia accompagnatrice, che aveva studiato da ragioniera e forse non coglieva del tutto lo spessore umanistico della mia folgorazione. Difficile dimenticare una tale esperienza. Detta, appunto, “Sindrome di Stendhal”. Infatti la bellezza non è solo apollinea, ovvero ordine, grazia, proporzioni. Secondo la geniale distinzione di Nietzsche, c’è anche quella dionisiaca, che è ebbrezza, passione e perfino morte. Non più la misura, ma l’eccesso.

Ed è proprio nel Novecento, con le due Guerre Mondiali e le grandi dittature, che tutto un ordine si decompone. La rivalutazione dell’inconscio operata dalla psicanalisi sembra disgregare la padronanza razionale che l’uomo può avere di sé. In Proust la bellezza è languida, sofferta, quasi logora, e reca in sé un’idea decadente di effimero e di morte. L’Ulisse di Joyce testimonia della distruzione di una logica e di un linguaggio.

Nello stesso uso comune, si vanifica anche la bellezza della parola, che è non è solo suono, ma varietà, sottigliezza, sfumatura. Da un’indagine del linguista Tullio De Mauro risultava che nel 1976 un ginnasiale conosceva mediamente 1500 parole. Lo stesso studente, vent’anni dopo, non possedeva più di 640 lemmi. Ogni vocabolo è sostanza, contenuto: restare senza paole equivale a trovarsi senza cultura. Oggi il dramma è dato dall’analfabetismo di molti laureati che non sanno costruire un discorso compiuto o minimamente articolato. Nel frattempo, nell’arte in genere, e in particolare in campo figurativo, si deteriorano tecniche e materiali, fino agli estremi sperimentalismi di avanguardie vecchie e nuove: insomma, la storia dell’arte procede dalla Venere di Milo alla Merda d’Artista. Lo so, non è bello: ma in fondo, cos’è il bello?

Ciao, cara. Giornalisticamente Tuo

Gian Luca Caffarena



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