Cercasi filosofi per settore informatico


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La notizia è che le grande aziende di informatica e telematica oggi assumono anche filosofi e laureati in lettere. Qualcuno, un po’ paradossalmente, è arrivato a dire che il manager del futuro dovrà conoscere la tragedia greca. Di certo si tratta di una svolta netta, se non epocale, rispetto a un atteggiamento ben diffuso fino a qualche decennio fa. Ancora nel 1963 uno scrittore come Charles Percy Snow parlava delle “due culture” – umanistica e scientifica – non tanto per contrapporre l’una all’altra, ma per lamentare piuttosto l’insufficiente interazione di quelli che allora apparivano come due mondi separati e lontani. Circostanza questa che agiva nello stesso Snow quasi come scissione: “Di professione – dichiarava l’interessato – ero scienziato: di vocazione, scrittore. Ecco tutto.” Nella sensibilità allora prevalente, l‘arte e la filosofia inventavano la realtà, mentre scienza e tecnica si limitavano a misurarla. Ma oggi, osserva il professor Alessandro Silva, già titolare della cattedra di matematica alla Sapienza di Roma, “se parliamo di «comprensione dei fenomeni» è chiaro che le due culture non sono che due aspetti della stessa cosa”.

In mezzo secolo dunque molto è cambiato: sul terreno, più pratico e immediato, dell’occupazione come su quello più generale della cultura e del pensiero.

Quanto al primo aspetto, basti ricordare come ai vertici di Almalaurea, il consorzio interuniversitario con la più importante banca dati di laureati in Italia, si insista molto sulla necessità di “mescolare i linguaggi” e dar vita a una formazione innovativa capace di superare distinzioni troppo rigide tra “umanisti” e “tecnologi”. Benché di fatto, specie in Italia, una laurea tecnico-scientifica apra tuttora maggiori prospettive d’occupazione. Eppure lo stesso Steve Jobs aveva proclamato l’urgenza di un ritorno alla figura, scientifica quanto umanistica, dell’ “ingegnere rinascimentale”.

Di certo Galileo non avrebbe potuto elaborare un pensiero sperimentale senza ricorrere alla tecnologia del suo cannocchiale. Leibniz, filosofo e matematico, fu convinto assertore di un pensiero umano unitario. Il filosofo e teologo Pascal fu anche matematico e fisico. A lui si devono tra l’altro importanti studi di idrodinamica. Nonché l’invenzione e la costruzione di una calcolatrice, ovviamente solo meccanica ma già capace di sottrarre e addizionare, poi chiamata Pascalina. Come escludere che l’ideazione di un tale congegno, oltre un ovvio ésprit de geometrie, abbia anche richiesto qualche scintilla di ésprit de finesse?

Come il cronista precede lo storico, l’idea o la visione (poetica?) precede quasi sempre l’esito scientifico: “Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu”. Immagine forte e potentissima, dove la Genesi ha anticipato, e di molto, la teoria del Big Bang (1929). Certe nozioni marxiane, come il concetto di alienazione, si basano a loro volta su una discreta conoscenza meccanica. E ancora. Henry Bergson, filosofo spiritualista di fine Ottocento, premio Nobel e teorico di quel creativo Slancio Vitale che anima tutto e tutti, si spinse a distinguere “il tempo della scienza”, che è quantità oggettiva come i dati dell’orologio, dal “tempo della vita”: qualità soggettiva, irripetibile e relativa. Precorrendo così la relatività di Einstein, che infatti osserva: “il tempo è relativo, il suo unico valore è dato da quello che facciamo mentre trascorre”. Il razzo di Jules Verne raggiunse la luna molto prima di Von Braun. Per non parlare di certe elaborazioni della meccanica quantistica, dove l’ interazione delle particelle subatomiche, ai limiti dell’immateriale, si direbbe sfiorare l’idea stessa di anima. Un giorno, in una conversazione privata, Umberto Eco osò un audace link informatico-metafisico: forse l’anima, mi disse, esiste come un’informazione già cancellata ma non ancora “incollata” del computer. Non sappiamo se è vero: certo, è un’ immagine elegante.

Molti scrittori del Novecento provengono dalla chimica. Carlo Emilio Gadda, quel geniale giocoliere del lessico, era un chimico. Come Elias Canetti, come Primo Levi, come Isaac Asimov, gigante della fantascienza. Si può dunque affermare che tra il tecnico e il filosofo, quando non si incarnino nello stesso individuo, ci sia nuova empatia. Oggi la conoscenza – invenzione, creatività, indagine e conquista intellettuale – tende insomma a porsi se non come corpus unitario, come struttura variamente articolata di un percorso comunque integrato e capace di dare un senso alla realtà.

La scienza, in altri termini, si apre all’ humanitas, dalla letteratura alle arti figurative.Ma quanta umanità può contenere e realizzare per esempio, l’informatica, o più precisamente la robotica: ovvero quel modo d’essere della tecnologia che più dovrebbe avvicinarla all’uomo, quanto meno nei comportamenti o nei procedimenti mentali? Il quesito evoca gli scenari di certi film geniali, da Alien al Blade Runner che lotta contro i replicanti. In particolare penso ad HAL (dove ogni lettera precede quelle dell’acronimo IBM), l’umanissimo computer che guida l’astronave di 2001, Odissea nello spazio. HAL ha una sua propria personalità e quindi una sua emotività autonoma: non solo sa decifrare il labiale dei piloti, ma è in grado di offendersi e fare i dispetti più bizzarri, finché l’astronauta decide di disattivarlo. Il declino è straziante: via via che la memoria viene meno e la vita fugge, la macchina soffre, implora, si rattrista. Quando è certa di morire, per farsi coraggio, improvvisa filastrocche infantili. Siamo tra le sequenze sontuose, smagliante anche figurativamente, concepite dal genio di Kubrik.

Ebbene: spiace deludere, ma la risposta è no. Il computer non è umano: non può. Non fino ad oggi, quanto meno. Certo, un umanoide può molto goffamente camminare, con passi rigidi e pesanti: ma vederlo è una pena. Può mimare qualche sguardo, emettere qualche vocetta. Può imitare, riprodurre, monitorare azioni e movimenti umani. E’ il caso dei droni, come di moltissimi impianti industriali. La macchina potrà riprodurre i percorsi del pensiero ma non pensare di suo. Potrà giocare a scacchi e anche vincere, scrivere testi e perfino venir programmata e comportarsi come se avesse dei sentimenti. Ma non può viverli, non può gioire né soffrire: perché non ha consapevolezza di sé. Non ha vita, non ha un’emotività sua. Questa è l’unica (ultima?) superiorità di noi umani. Non è poco: se è lecita un’opinione personale, converrà tenercela stretta.

Gian Luca Caffarena



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