Epoche. Swinging days


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Una Roll Royce argentea solca le strade del centro di Roma scortata da sei «ragazzi di vita» su Harley Davidson rombanti. È il pomeriggio del 9 marzo 1967. Via Margutta, la vecchia strada dei pittori e degli artigiani, accoglie Mary Quant, l’«alta sacerdotessa della moda degli anni sessanta» [1]. Con lei anche Dougle Millings, il sarto dei Beatles e, «in mantello nero foderato di raso bianco, cappelluccio di renna e bastone con un bel pomo d’argento», Warren Gold (Lord John), guru della moda maschile, che giunge a bordo di un cocchio trainato da cavalli bianchi.

Dalle borgate romane sono calate nel cuore della capitale a rendere omaggio alla disinvolta inventrice della minigonna, tutte «le rappresentanze dei capelloni cittadini». Mary Quant appena un anno prima, nel 1966, aveva ricevuto dalle mani della Regina Elisabetta, l’onorificenza di Officer of the Most Excellent Order of the British Empire (OBE), per i meriti nell’industria della moda. L’anno precedente, 1965, erano stati insigniti dell’onorificenza di Member of the Most Excellent Order of the British Empire (MBE), quindi un gradino sotto Mary, nientemeno che i Beatles.

 

Ma cosa ci fa la regina della moda in via Margutta? L’occasione è una sorta di gemellaggio tra la londinese Carnaby Street, cuore pulsante del “dondolante” nuovo che avanza, e la vecchia strada romana, con l’inaugurazione di sei luoghi trasposti pari pari dal Regno Unito.

«Alle antiche e modeste insegne dei corniciai, si intervallano adesso le sei gialle [insegne] luminose dei nuovi negozi»: quattro di abbigliamento per giovanissimi (Carnaby Street Gear, dove si vendono anche braccialetti, orecchini e occhialoni), un Carnaby Club «per chi può spendere» e una Carnaby House («una cantina sotterranea dove potranno bere Coca Cola i teen agers che non portano soldi ma assicurano il folklore necessario per attrarre chi spende»).

In realtà il decennio che bussava prepotentemente alle porte, gli anni settanta, sarà ricordato come uno dei più spendaccioni. Più di cinquecento miliardi di lire all’anno saranno infatti spesi dagli italiani «per divertimenti, feste, allegria e superfluo che più superfluo non si può». E a spendere sarà soprattutto quella nuova categoria che il mercato fino ad allora aveva pressoché ignorato: e cioè proprio i giovani.

Per ora invece, almeno quel pomeriggio di marzo in via Margutta, tutto era gratis: « l’organizzazione, infatti, non ha badato a spese. La cantina che il piano commerciale prevede come il nuovissimo rifugio dei beat della Capitale ha messo a disposizione, gratuitamente, migliaia di bibite e panini imbottiti. I giovani (ma non soltanto loro) hanno spazzato via tutto in meno di un’ora. E poi eccoli, fuori sull’ex via Margutta, bevendo alle bottigliette (o portandone a casa una piccola scorta) ad ammirare le nuove vetrine, con le giacche Edoardiane, le cravatte policrome, i ninnoli di vetro e le commesse in minigonna».

 

Dunque in quei giorni di fine decennio, sembrava proprio che l’immaginazione potesse avere il sopravvento su ogni cosa, che l’assalto al cielo avrebbe avuto sicuro successo. Un’aria nuova, frizzante, fresca ed eccitante, soffiava dalla swinging London [2]. Tutto era “british” e meraviglioso: musiche, arte, moda, stile di vita. Il Paese forse più conservatore della vecchia Europa, la Gran Bretagna, aveva incubato in seno il germe di una rivoluzione dei costumi sconvolgente che ora travolgeva il resto dell’Europa «dai parapetti antichi» ed il mondo intero.

Qualche vecchio artigiano di via Margutta ricordava con una certa dose di saggezza ai cronisti accorsi in massa, che sì, tutto stava cambiando, ma in fondo era perché tutto restasse uguale. Dove ora c’è la cantina prima c’era una segheria e prima ancora «la “sala di Pippa nera”, una taverna degli artisti, sempre piena di pittori col cappello svolazzante, ragazze in costumi strani da ciociare in attesa di qualcuno che le chiamasse a far da modelle. Adesso l’arte vecchia se n’è andata e c’è la moda nuova. Ma è sempre lo stesso».

Se a Roma era nata Margutta Street, a Milano, in quegli stessi mesi apriva, all’angolo tra galleria Passarella e San Babila un rivoluzionario punto vendita progettato da Amalia Del Ponte. Ad inaugurarlo, al posto di Mary Quant in Roll Royce, arrivò Adriano Celentano in Cadillac.

Elio Fiorucci, figlio di pantofolai, di ritorno, manco a dirlo, dalla swinging London, aveva deciso di dar vita nel cuore della moda aristocratica milanese ad uno spazio polisensoriale, dove tra musica dal vivo e profumo intenso di patchouli, i giovani potevano trovare le policrome, innovative uniformi del nuovo tempo.

Il Dizionario della moda curato da Guido Vergani (Baldini & Castoldi 1999; Baldini Castoldi Dalai, edizione aggiornata 2010), dedicherà al fenomeno di costume internazionale scaturito proprio da quel negozio milanese il neologismo di “fioruccismo”. Lo stimolo londinese raccolto da Fiorucci e poi da tanti altri stilisti e creativi italiani, superò ben presto i confini nazionali e conquistò il mondo con quello che tutti finirono per chiamare il made in Italy.

 

Leggendo le cronache di quei giorni, appare curioso il discutibile termine con cui in Italia giornali e televisione definivano i giovani, contestatori o fan di Fiorucci e Mary Quant: “capelloni”.

Il 10 gennaio 1967, alla cerimonia inaugurale dell’anno giudiziario a Milano, l’avvocato generale Antonio Pontrelli che sostituiva il procuratore generale Pietro Trombi, parlando della delinquenza minorile dichiarava che la criminalità era in aumento anche perché «si guardano con occhio indulgente e talvolta con malcelata simpatia certe conventicole di giovani zazzeruti e graveolenti, dalle acconciature strampalate e pittoresche, che hanno abbandonato la casa, lo studio e le oneste occupazioni per dedicarsi all’ozio infecondo, al vagabondaggio, a svaghi turbolenti, a pratiche di erotismo collettivo che attraggono nella loro torbida scia fanciulle giovanissime votate a immancabile corruzione… e che debbono ricorrere a mezzi illeciti di sostentamento particolari… e addirittura ad amicizie particolari. Anche a rischio di essere chiamati attentatori della libertà… occorre reprimere con la massima energia codeste manifestazioni collettive e corali di dissocialità».

 

Sul secondo canale della Rai il 23 febbraio 1967, andò in onda alle 21.15 la trasmissione Giovani, in cui si discuteva proprio dei “capelloni”. Un servizio di Sergio Zavoli da Bologna era dedicato ai “beatniks”, da non confondersi o anche sì, con l’avanguardia americana dei poeti e scrittori come Allen Ginsberg, Gregory Corso, Jack Kerouak.

Anche nel resto d’Europa accadeva che qualcuno prendesse iniziative estemporanee per contrastare il fenomeno dilagante. Ad Amsterdam, luogo che si ergerà a simbolo della trasgressione, il 5 aprile 1967, i marines olandesi aggredirono con violenza una trentina di giovani “capelloni” (nozem e provos) e li sottoposero al taglio forzato dei capelli (!).

 

Tornando a Roma e in via Margutta, prima di concludere meritano di essere riportate le previsioni che l’esuberante Mary Quant rilasciò in un’affollatissima conferenza stampa quel pomeriggio di marzo: «La minigonna è morale, e questa è una moda puritana. Costringe la donna ad usare la calzamaglia e sconsiglia le scollature profonde, i tacchetti, le mossette, tutto il repertorio sexy del passato. Ci avviamo verso un’età in cui gli uomini saranno finalmente decorativi e divertenti, e le donne libere nei gesti, felici di correre, di ballare, di lavorare. Non c’è donna che non possa portare la minigonna, non c’è età o gambe abbastanza brutte che lo possano impedire. Nel futuro, anzi, i vestiti diventeranno addirittura un impaccio: si andrà ad una festa e la donna si sfilerà l’abito, resterà in una tuta completa, dai piedi al collo. Sarà la donna-gatto. Gli abiti non avranno più cuciture. Saranno un involucro a spirale, la tenuta spaziale ideale. Ecco, la donna alla moda del 2000 sarà una donna-bottiglia».

 

Come possiamo notare, superati ormai abbondantemente gli anni 2000, nelle parole di Mary Quant di oltre quarant’anni fa, si alternano ipotesi strampalate, come i vestiti “involucro a spirale” o la “donna bottiglia”, ad acute premonizioni: gli uomini che sarebbero divenuti oggetti “decorativi”.

Al di là della battuta possiamo constatare quanto sia impossibile, in ogni epoca e anche per le menti più fertili, prevedere quale sarà il futuro.

Sul finire degli anni sessanta prevaleva nei giovani un ottimismo e un dinamismo che purtroppo si raffreddarono ben presto e spesso in tragici epiloghi. Chissà mai che il pessimismo che pervade i nostri giorni odierni non si tramuti invece in stagione fertile e serena. Chissà…

Gabriele Paradisi

 

 

* Le citazioni sono tratte da La Stampa e l’Unità del 10 marzo 1967.

 

[1] Così la definì il giornalista e scrittore Henry Bernard Levin.

 

[2] Il termine Swinging London fu coniato in un articolo di P. Halasz, ‘London: The Swinging City’, su Time del 15 aprile 1966 e sintetizzava egregiamente quello che Tom Salter, proprietario di negozi in Carnaby Street definì in un suo libro «the youngest legend in history» (T. Salter, Carnaby Street, Walton-on-Thames, 1970).



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