Slow Medicine


Add to Flipboard Magazine.

Una medicina basata sul dialogo col paziente, sul rispetto della sua persona e la sua storia, un rapporto orizzontale e non dall’alto, una medicina meno condizionata dalle pressioni del mercato e dell’industria. Parole chiave precisate nel manifesto: sobria, rispettosa e giusta, che sono il mantra del Movimento Slow Medicine, ispirato da slow Food di Carlin Petrini ormai noto in tutto il mondo e che non a caso ha sede proprio in Piemonte. Un approccio in realtà antico e dimenticato così come anomala è l’intervista che Vi proponiamo, a più voci, quelle di Giorgio Bert, Antonio Bonaldi, Silvana Quadrino e Sandra Vernero, un discorso che vuole essere corale.

Che cosa è la Slow Medicine e cosa si prefigge?

Slow Medicine si propone di organizzare eventi, incontri e seminari, promuovere progetti di ricerca, avviare buone pratiche di cura e utilizzare i nuovi strumenti del web per favorire contatti e rapporti tra persone che si richiamano a tali principi e che potrebbero trovare motivo di interesse e di crescita dalla reciproca conoscenza.

Cosa sono le medical humanities e la medicina narrativa?

La malattia è un problema biologico ma il malato è una persona. Occorre però che siano oggetto di cura anche quegli aspetti che è d’uso definire psicosociali: la malattia coinvolge non solo il corpo ma la vita intera del malato. La vita infatti è fatta di emozioni (paure, speranza), di progetti, di relazioni (famiglia, lavoro, amici…), di immaginari, di simboli e significati condivisi, di convinzioni, le scienze umane (humanities) vanno applicate alla pratica medica mentre l’attuale formazione del medico tende a ignorare questi aspetti.

L’uso della narrazione in medicina (medicina narrativa) è uno degli strumenti –forse il principale- che permettono di esplorare il mondo del paziente utilizzando come guida lui stesso, che di quel territorio è l’esperto e rende possibili scelte e decisioni condivise, che affianca il paziente in ogni momento del suo percorso di vita o di malattia.

Il rapporto medico-paziente sembra essere il grande assente della cura moderna: non esiste alcun insegnamento universitario che se ne occupi eppure è riconosciuto che proprio la RELAZIONE è terapeutica…

Assolutamente vero, é dimostrato da ricerche neurofisiologiche che la relazione di cura può avere importanti effetti terapeutici.
In realtà troppo spesso si confonde la formazione al rapporto  fra medico ( o professionista sanitario in genere) e paziente con l’insegnamento della psicologia ai futuri medici, infermieri  ci vogliono interventi basati sulla comunicazione, sull’ascolto, sull’esplorazione della realtà del paziente . Medical humanities, medicina narrativa, e counselling sono assenti o quasi nella formazione universitaria italiana.

Medico e paziente sono, nella vostra visione, due esperti, l’uno della medicina, l’altro di sé e della propria storia, come ridare dignità al malato?

Imparando ad ascoltarlo  il che non è una concessione che il buon medico fa al malato ma l’asse portante di una relazione di cura basata sul rispetto. Il  professionista sanitario deve conservare il suo ruolo di esperto per affiancare il malato nella comprensione del significato di una diagnosi o di una proposta terapeutica, nell’assunzione di decisioni, nella scelta fra più tipi di intervento , lasciando al malato il suo ruolo di esperto per tutto quello che riguarda la sua realtà di vita: solo lui può sapere cosa fa succedere nella sua vita la malattia, cosa  teme, cosa può sopportare, cosa lo può aiutare, cosa può alleviare la sua sofferenza non solo fisica.

Cosa cambia nel vostro approccio nella pratica quotidiana della medicina?
Cambia la logica del percorso decisionale, che diventa il più possibile condiviso e cooperativo; modifica gli interventi sugli stili di vita, che si basano sempre di più sulla motivazione e meno sulla descrizione dei rischi; modifica l’approccio al dolore, del bambino come dell’adulto e del vecchio; la proposta di interventi farmacologici, che il medico slow mantiene rigorosamente aderenti ai principi di appropriatezza e di correttezza d’uso. Tutti i momenti della cura vengono  resi più sobri e rispettosi.

 

Quali ambiti di salute potrebbero a vostro parere essere de-medicalizzati?

E’ importante che il rapporto tra medico e paziente non si limiti alla prescrizione di farmaci ma miri a far assumere alle persone un ruolo attivo.

Nelle cure di fine vita quando viene data loro la possibilità di scegliere, i pazienti utilizzano interventi meno invasivi, migliorando la sopravvivenza e la qualità della vita.

Cosa pensate della pressione delle aziende a vendere sempre più farmaci e del fenomeno del DISEASE MONGERING ossia della creazione a tavolino di malattie e sintomi?

Dato che  le vere innovazioni terapeutiche sono state, negli ultimi 20 anni, molto scarse si sono sviluppate strategie che mirano alla medicalizzazione della vita. Tra queste la revisione al ribasso delle soglie che definiscono il “patologico” per tutta una serie di fattori di rischio diffusi (ipertensione, ipercolesterolemia, diabete…). Inoltre si classificano come malattie condizioni che fanno parte del normale processo biologico della vita: il British Medical Journal ha enunciato 200 condizioni reputate a torto malattie, tra cui menopausa, osteoporosi, colon irritabile, cellulite.

 

Voi guardate con preoccupazione all’appiattimento delle culture e delle tradizioni in favore di modelli propagandati come gli unici possibili, cosa dovremmo recuperare?

 Dobbiamo saper guardare contemporaneamente indietro e avanti: al passato e al futuro. Un tempo le tecnologie diagnostiche e gli ausili terapeutici erano molti limitati e di scarsa efficacia. La medicina si avvaleva quasi esclusivamente della forza della relazione e della parola e, il medico, beneficiava di molto rispetto, autorevolezza e prestigio.

Ma dobbiamo anche  avere un approccio sistemico: paziente, medico, ambiente, contesto di cura rappresentano un tuttuno inseparabile che dobbiamo riconoscere e salvaguardare.

Multidisciplinarietà, pluralità dei linguaggi, integrazione e connessione di saperi tra cure umanistiche, sociali e biologiche sono i nuovi ingredienti e le vere sfide della medicina di oggi che postulano scenari innovativi e chiedono profonde trasformazioni nelle modalità di gestione e di organizzazione delle cure. È venuto il tempo per la rinascita di un nuovo medico generalista? Se lo chiede anche  chiede Jane Smith nell’ultimo numero del British Medical Journal.

Johann Rossi Mason



Devi essere registrato per inviare un commento Entra o registrati