Design italiano, questione di Style. Sergio Pinifarina e la bellezza italiana


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“Nell’Italia dei Borgia ci furono terrori e carneficine, ma ne vennero fuori Michelangelo, Leonardo e il Rinascimento. In cinque secoli di vita ordinata e quieta, che ci ha dato la Svizzera? L’orologio a cucù.” E’ una memorabile battuta di Orson Welles nel film Il terzo uomo che molti ricorderanno. Se mai agisce tuttora nel mondo globalizzato una certa idea di grandezza e civiltà italiana, è certo che non è legata a una qualche tradizione di orgoglio nazionalcoloniale, come per l’ Inghilterra e la Francia, né di potenza industriale o militare, come la Germania. Bensì a un concetto tutto mediterraneo e rinascimentale di bellezza, tra edonismo antropocentrico e genio laico.

Sergio Pininfarina è morto lo scorso 3 luglio a 85 anni. Questo nome e questo marchio – con l’universo tutto del design torinese e italiano in genere – hanno sempre coniugato bellezza e utilità, arte e tecnica, stile e funzione. Quando l’America ci dava Cadillac barocche e tondeggianti, quasi da Controriforma, la Lancia e Pininfarina offrivano al mondo una berlina di lusso leggera come la Flaminia, pulitissima e filante. E il design italiano si affermava non solo nell’auto, ma nella moda e in ogni manifattura.

Design non è propriamente disegno, ma progettazione industriale. Col tempo, peraltro, il termine si è arricchito di significati più ampi, dove si coniugano armonia e utilità, estetica e industria, creatività e meccanica. Si pensi al Futurismo. Nel Novecento il concetto di arte evolve, per avvicinarsi a un’idea di applicazione multipla, su vasta scala. Con la rivoluzione industriale, dopotutto, anche il bello si può replicare, produrre in serie e tradursi in uso quotidiano. L’idea artistica supera l’ambito artigianale, per contaminarsi felicemente nel processo industriale. Così nasce e si diffonde l’ Italian Style.

Dopo la Guerra, negli anni Cinquanta, il gusto e il costume già risentono di un’idea nuova di eleganza e originalità. Da noi sono ancora gli anni delle due ruote: scooter come Vespa e Lambretta, spesso allestiti frettolosamente con residuati bellici, piacciono subito per agilità di linea e di manovra. Quanto all’auto, dopo la Topolino, ecco la Seicento e la Cinquecento: piccole, maneggevoli, disegno liscio e linee pulite. Insomma: belle. Carrozzieri come Ghia, Bertone e lo stesso Pininfarina – Giugiaro verrà un po’ dopo – segnano in quegli anni le linee audaci e semplicissime dell’auto italiana, dall’utilitaria a buon mercato al lusso delle Gran Turismo, come si diceva allora.

Ma intanto una nuova e contagiosa bellezza si era felicemente propagata agli oggetti di uso più comune, dall’arredamento agli elettrodomestici. Ci avviciniamo agli anni sessanta: irripetibili.  Oggi un prototipo della Lettera 22 Olivetti è esposto al Museo d’Arte Moderna di New York. Ma chi non ricorda le lampade Artemide? L’Eclisse di Magistretti (1967) è perfetta. Il disegno industriale si arricchisce di nomi importanti, architetti come Gio Ponti e Gae Aulenti, mentre la società tecnologica democraticamente coniuga alta cultura e consumi popolari. Lo stesso avviene nella moda del prêt-à-porter: forme raffinate, certo, ma più sciolte e praticabili. Dall’architettura agli utensili da cucina o ufficio, ecco linee slanciate e tese, ispirate a un ordine razionalistico, rigorosamente scevro di orpelli e fregi. E’ il tripudio dei grafici e dei pubblicitari di sinistra, degli architetti di sinistra, degli urbanisti di sinistra. Che tempi.

Pochi sanno che le linee delle rivoluzionarie Citroen DS e 2CV si devono a un geniale modellista e scultore italiano, Flaminio Bertoni, di Varese. Dagli apparecchi Brionvega al mitico Gelosino beige, parliamo di oggetti in qualche modo già rivalutati e preziosi, che sono il modernariato dei nostri giorni. Oggi si dice vintage. Fortunato, e lungimirante, chi ha saputo conservare quelle belle antiche cose.

Gian Luca Caffarena

 

 

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