E-state con noi. Intervista a Paolo Limiti: “Noi eravamo più belli”


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Ha una bella casa a Milano, dove pianoforte, quadri d’autore e arredamento antico si combinano audacemente con pazzi reperti kitch, che piacerebbero a Renzo Arbore. Come le bamboline di Rossella ‘O Hara, con i vari costumi di Via col Vento. Tra altri disparati gadget non manca una Marilyn-telefono, che quando squilla puntualmente solleva l’immancabile gonna bianca. Nella biblioteca, lungo le pareti del corridoio, moltissimi classici di letteratura e filosofia, più tanta “roba di spettacolo”. E pensare che Paolo Limiti viene dall’Istituto Tecnico Avogadro di Torino, perché uno zio senza figli lo voleva a capo della sua industria elettronica . Un percorso che ricorda un po’ quello di comici come Villaggio e Beruschi, che emanano da un grigio background Italsider di burocrazia e tecnicismi. Forse ai grandi creativi è necessaria una dolorosa fase di compressione forzata, perché la fantasia possa poi felicemente esplodere nei modi e linguaggi più congeniali. Limiti – padre francese, mamma italiana – parla fluentemente tedesco, inglese e francese. Spesso si trova ad Hollywood, dove coltiva un’infinità di amicizie tra le maggiori star di ieri e oggi. Da giovane ha lavorato in pubblicità al tempo dei Caroselli, ha scritto i testi del Rischiatutto per Mike Bongiorno, ha dato parole e versi alle più belle canzoni di Mina. Più recentemente, durante il non breve esilio dalla Rai, si cimenta con successo in melodrammi lirici e libretti d’opera.

Ora, con la versatilità e il garbo un po’ salottiero che conosciamo, ripropone la sua collaudata formula su Rai Uno, tutti i giorni a mezzogiorno, con “E-state con noi in TV”. Ospiti d’antan, talk show, ottima musica non solo leggera, qualche sketch, conversazione ricca d’aneddoti e piacevolissima, un po’ per l’amabilità del conduttore e un po’ perché le peggiori perfidie Limiti le fa dire all’acida Flora Dora, cagnetta peluche petulante e sentenziosa, da lui stesso inventata, cui nessuno osa mai replicare. Non mancano accurate ricostruzioni anche filmate dei drammi più torbidi e cruenti maturati nell’America del Novecento.

Per l’età degli ospiti e del repertorio, la sua si direbbe una raffinata operazione di modernariato o vintage, come si dice oggi. “Personaggi un po’ dimenticati che hanno tuttora qualcosa da dire”ma ecco le prime critiche: si parla di speculazione sulla nostalgia, si ironizza sull’anzianità del pubblico o sull’opportunità di certi revival. Limiti non ci sta «Ci sono anziani e giovani, basta consultare l’auditel. Certo, gli anni sessanta ci hanno dato gli artisti e le canzoni che sappiamo, ora riprese anche da molte altre trasmissioni, come “I migliori anni”, o gli stessi programmi dove cantano i bambini. Volete artisti giovani? Datemi qualcuno del calibro di Mina o Patty Pravo. Personalmente non ne vedrei».  Non si può che concordare: da tempo, ogni febbraio, la tivù ci offre un Sanremo dalla confezione perfetta ma dai mediocri contenuti musicali. Motivetti e testi stereotipati, cantanti vocalmente anche dotati ma appiattiti in cliché e stilemi ripetitivi. Esito artistico zero. Tant’è che poi nel resto dell’anno, se si vuole tornare a un repertorio di qualità, ricorrono i grandi nomi di sempre, da Battisti a De André, da Endrigo a Tenco.

 

Ma Limiti fa qualcosa di più. La sua è una pedagogia, una filologia paziente della canzone. Uno scrupoloso approccio umano e scientifico, dove il tempo, più che invecchiare la materia, ne consente una visione più distaccata e penetrante: i retroscena, i precedenti, gli aneddoti, il contesto, gli episodi curiosi, i personaggi, i capricci delle star e tanto altro. Insomma: quella storia della canzone italiana: su cui, ammette, molti testi circolanti sono “obnubilati dall’ideologia”. Ma qual è la canzone più adatta a interpretare lo spirito del tempo: quella colta o quella popolare? «Quella popolare, non c’è dubbio, come riconosceva lo stesso Proust. Pezzi come “Profumi e balocchi” o “Addio Tabarin” erano amati da un pubblico vastissimo che in quei terribili anni saltava anche i pasti. Nel riproporli oggi, una rappresentazione forte e realistica ne coglie il senso meglio di una rielaborazione ironica e stilizzata».

 

Ripercorriamo gli esordi. Il paroliere Paolo Limiti, giovanissimo, è lanciato dalla brava Jula de Palma: voce sensuale, interprete molto moderna e swing (oggi vive in Canada), entusiasta del pezzo che le propone:”Mille ragazzi fa”. Poi i sei anni del Rischiatutto con Mike Bongiorno. Gli scriveva anche le mitiche gaffe?  «No, quelle erano proprio sue». Che tipo era Mike?  «Metodico, razionale, più professionale che creativo. Una macchietta. Con i concorrenti ostentava bonarietà, ma sapeva mantenere le distanze anche con qualche durezza». Ma intanto gli editori musicali scoprono in Limiti un’inesauribile vena di paroliere sensibile e ironico. Ed ecco brani memorabili, come il malizioso e sulfureo “Sacundì Sacundà” (1968) o il palpitante monologo di “Bugiardo e incosciente” (1969), magistralmente interpretati da Mina. A Sanremo, nel ’68, “La voce del silenzio” è affidata alle vibranti corde di Dionne Warwick. Sono gli anni d’oro della musica leggera italiana. Ma perché oggi, anche in questo campo, prevale – per dirla chiara – l’effetto “Corazzata Potëmkin-Boiata Pazzesca”?  «Per mancanza di scolarizzazione. La troppa facilità con cui si accede a una telecamera favorisce dilettantismo e mediocrità. E per una ragione di coerenza estetica generale, che vale direi in ogni settore. A lei piacciono i fenomeni di oggi? Abbigliamento, stile, costume?»  Eh, no. Ha ragione lui: noi eravamo più belli.

Gian Luca Caffarena

 

 

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