SplashTv. Paolo Di Mizio: il telegiornalismo umano


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Se è vero come preconizzò il grande MacLuhan che il messaggio è sempre più calibrato o sostituito dalla potenza del medium, che, cioè, nel dire una cosa a un interlocutore interferisce il canale che si sceglie, il linguaggio che si adotta, l’emozione che si vuole trasmettere, finanche la postura e la metrica con cui la si dice, allora all’informazione non resta che un bivio. O soggiacere, come sta già accadendo purtroppo, a una cascata di simulacri, a una forma vuota e spesso insensata di comunicare, a un cliché declinabile alla bisogna, oppure rivalutare fortemente l’impatto antropologico, lo stile personale, la partecipazione affettiva alla notizia, l’analisi lucida e le visioni d’insieme. Paolo Di Mizio, caporedattore centrale del Tg5, curatore della rassegna stampa notturna, volto fra i più noti del telegiornalismo nazionale, appartiene sicuramente a questo secondo campo. Fatto di scelte vissute, eticamente improntate, che sanno di codici antichi ma mai smarriti. Per sobrietà lessicale, per puntualità, aplomb, preparazione, per lo scintillìo della sua dizione (da laureato in Lingue), per una umanità che sempre traspare dal suo dire, mai scontato, mai seriale, mai indottrinato, le “prime pagine” di Di Mizio hanno una caratura che fa differenza. La sera della tentata strage di Brindisi in cui morì la piccola Melissa, “scivolò” spesso sui titoloni di apertura della tragedia perché commosso profondamente da quello che doveva “tecnicamente”, invece, annunciare attraverso telecamere e visualizzazioni grafiche. Da qui è nata la nostra personale amicizia. Da qui parte una chiacchierata con un leone di lungo corso come lui per cercare di capire le derive e i rifugi possibili per la nave del fare-news contemporaneo.

 

Paolo, io partirei dalla tua voce rotta di quella notte, che a me spettatore provocò un disagio positivo e solidale. Con te e la storia di quella ragazza…

“Fu una cosa che sorprese anche me perché ritengo che un giornalista non debba commuoversi durante ma dopo gli eventi, controllando il suo sangue freddo; ho fatto da inviato di cronaca, di esteri, di guerra, ho assistito a scene drammatiche, ho visto morti, ma non mi sono mai commosso. Quella sera molto tranquillamente ero entrato in studio con Alberto Duval ma, nel momento in cui ho iniziato il commento dei giornali, sul touchscreen si è allargato il viso di questa ragazza che mi ha dato l’impressione che quasi mi puntasse negli occhi, e siccome assomiglia a mia figlia e ha la stessa età sua, e stava scritto che era figlia unica di un padre operaio, beh, mi ha colpito l’enormità di questa tragedia, anche familiare, lo strazio di questa giovane vita stroncata, e allora mi si è spezzata la voce. Ho cercato di assorbire la cosa ma ogni giornale aveva in prima pagina lo stesso viso, quindi ho faticato molto con qualche colpo di tosse per evitare che la voce diventasse, come poi è stata, rauca”.

Il giornalismo sembra aver rimosso del tutto una dimensione umana, empatica del comunicare.

“E’ una dimensione che non va esclusa ma gestita. Nel giornalismo televisivo conta molto la mimica facciale, il non detto, il tono, le pause fra una frase e un’altra, e tutto questo va messo in scena quasi con l’abilità di un attore, oltre che con la professionalità di un giornalista – e oggi se ne vedono tanti che si affacciano a questo mestiere senza esperienza o competenza. Se parli di morti ammazzati in guerra o sotto un terremoto non puoi avere una voce allegra, viceversa questa non può essere funerea se commenti un concerto di Springsteen. E sarebbe anche sciocco, per esempio, fare le smorfiette rispetto a singole testate, per far capire quelle che ti stanno più simpatiche o antipatiche. Io cerco infatti sempre di equilibrare i giornali di diversa provenienza politica e opinione: il problema è rimanere neutri rispetto al contenuto”.

 

Proviamo a mettere il giornalismo sul banco degli imputati? Non pensi che un certo sfascio morale, una certa collettiva indifferenza sia da attribuire a un modo asettico e a volte meschino di fare informazione?

“Il giornalismo oggi non è spersonalizzato ma provinciale. Quando arriva una notizia dall’estero o la si esagera della serie: “Obama dà uno schiaffo all’Europa”, ma  magari ha detto solo una mezza frase, o si esagera nell’altro senso. Si dedica pochissimo spazio agli interessi veri della gente che si stanno orientando sempre più su come si vive in altri paesi, su come sono strutturate altre economie. Noi tutti facciamo sceneggiatine serali in cui magari diamo molta importanza al corpo di una vecchietta morta ammazzata – che certo non è un problema che muove il mondo o che sarà scritto nelle pagine di storia fra 50 anni – e non a problemi fondamentali. Se dovessi scegliere il direttore di un tg sceglierei un 40enne navigato, perché bisogna entrare in contatto con la realtà del tempo e se sei a metà generazione la capisci meglio rispetto a 15 e 80 anni. In secondo luogo, dovrebbe parlare inglese e anche un’altra lingua. E quest’ultima cosa è allucinante che non accada in Italia. In altri paesi tutti  i giornalisti di un certo spessore, o anche quelli di provincia, parlano almeno l’inglese e bene perché hanno avuto esperienze all’estero vivendo un pezzo della propria vita in Inghilterra, America, Australia, e questo ha aperto loro la mente. Personalmente non riesco a viaggiare senza incuriosirmi di quello che accade in quegli spicchi di mondo dove vado, ogni luogo mi ha preso, affascinato, ci vorrei tornare o non tornare, ma ha destato in me sensazioni forti, e invece noto che persone che fanno i giornalisti, e che dovrebbero avere una sensibilità vicino alla mia, ne ricavano solo noia, poi tornano in redazione e si accaniscono su problemi provinciali o di piccolo cabotaggio”.

 

La cronaca oggi assomiglia sempre più a un caleidoscopio di pezzi impazziti, all’interno dei quali non si trova mai un filo di comprensione della realtà…

“Giornali e programmi giornalistici seguono la cronaca con dovizia e ricchezza di particolari perché si è capito che è un filone che incontra il piacere della gente. Non si fa più l’approfondimento della notizia. Non basta dire che un genitore ha buttato il figlioletto dalla finestra senza collegare questo fatto con uno analogo di pochi giorni prima. Sono pezze senza vestito. Senza memoria. Si fa cronaca ma non si riuniscono più le ragioni generali fra fatti simili. Una logica che risponderà senz’altro a delle utilità commerciali come nel caso di notizie di delitti prese e gonfiate con l’intervento di pseudo criminologi, psicologi, esperti, ma senza una vera analisi della gravità di gesti individuali e contesti sociali. Una frammentazione che deriva dalla poca voglia di lavorare sulle notizie. Un fatto avviene a Venezia e se ne occupa il corrispondente, tre giorni dopo un caso simile a bari e il corrispondente locale scrive il pezzo, ma non c’è nessuno che prende queste cose  e le raccorda”.

 

Diciamo allora che la nostra professione rischia una forma di decadenza?

“Siamo arrivati a un punto di saturazione e di compromissione del nostro mestiere che abbassa la qualità: in Italia 9 giornalisti su 10 vengono assunti per raccomandazione, non tutti sono dei cretini, ma il fenomeno resta. C’è degrado nel meccanismo di accesso alla professione. L’ordine dovrebbe modificarlo, creare una laurea specialistica quinquennale in giornalismo che già sarebbe una barriera. Bisognerebbe escogitare sistemi per frenare questo malcostume, che diventa una anormalità grave quando il giornalista viene assunto in alcune testate perché in quota a un certo partito. Avvilente”.

 

Consigli a un aspirante giornalista?

“Due strade: o si adegua all’andazzo o fa un altro mestiere. Perché il problema non è solo l’accesso: una volta ottenuto questo, l’avanzamento di carriera, la possibilità che le tue qualità vengano utilizzate appropriatamente, dipenderanno non dal talento intrinseco ma sempre da chi sei figlio”.

 

La politica ha fagocitato quello che un tempo era il giornalismo critico?

“Siamo di fronte a un’infausta tradizione italiana nata a fine anni ‘50 quando è nata la tv stessa, per cui si doveva aprire il tg col “servizio istituzionale” dedicato al presidente della Repubblica o del Consiglio, e si faceva il cosiddetto “pastone” col bilancino fra i vari partiti. Era così quando ero bambino e ancora oggi è un riflesso condizionato dell’informazione: Mentana al nostro Tg5 decise in modo rivoluzionario di aprire con la cronaca o ignorando la politica, ma poi siamo ricaduti in abitudini di telegiornalismo che risalgono alla prima Repubblica e che francamente non credo facciano bene, perché non eccitano l’anima degli spettatori . Un brutto segno di vecchio stampo. In Germania, America, Austria, finanche in Perù mi dicono, non è probabile che il tg cominci con le notizie del governo a meno che non siano di rilievo grande  e che riguardino tutti. Diatribe politiche, giochi di potere, alleanze, scese in campo, il negare incrociato fra leader di partito, non avrebbero cittadinanza nei tg di altri paesi”.

 

Nelle tue rassegne stampa spesso spieghi dei concetti, ti soffermi su alcune parole più strane, per così dire. Credi in un aspetto anche pedagogico-didattico del giornalismo?

“Penso che sia una cosa positiva: molte cose vengono date per scontate. A me non sono mai piaciute le cose che non sono chiare. Gli inglesi imparano a dire con meno parole possibili un concetto. Inoltre, fra i miei maestri c’è stato Montanelli che diceva che se un lettore non ha capito una frase è colpa di chi l’ha scritta. Spesso torno dall’estero, leggo un giornale e subito perdo il bandolo della matassa perché nessuno mi ricostruisce la storia immediata di un avvenimento. Nel mio piccolo do per scontato che non tutti abbiano letto accanitamente l’evolversi di una notizia a tal punto da possedere il significato di ogni parola, soprattutto di quelle gergali e straniere. Bisognerebbe sempre ricordarsi che i riferimenti dotti per gli addetti ai lavori non sono proprio alla portata di tutti”.

Carmine Castoro

 



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