SPLASH TV. La voce graffiata di Di Mizio e la “normalità” DeFilippiana


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Proprio non ce la fa Paolo Di Mizio a dissimulare il moto di commozione che lo agita dentro. Mezzobusto fra i più esperti e gradevoli della rassegna stampa del Tg5 della notte, dotato di un inconfondibile aplomb molto british anche nel modo di vestire, ha la voce rotta dal pianto. Sabato notte i titoli dei maggiori quotidiani nazionali grondano pena e lacrime, strazio e rabbia per la morte di Melissa. Se Di Mizio commenta  un summit economico, un risultato di calcio o una notizia di cronaca ritrova tempra e timbro. Ma non appena è costretto a dare voce alle maxi-aperture che squarciano il velo sulla tragica vicenda di una ragazzina dilaniata da un ordigno innescato da un folle sconosciuto o da qualche fronda del terrore, ecco che parla con un soffio, avanza a spanne, si controlla, vorrebbe prorompere, si riacciuffa da solo. Per volte e volte. Maestro e allievo nella stessa anima. Gli articoli sproloquiano sulla solita calcificata retorica che allude a inferni, strategie della tensione, emergenze ed esternazioni ufficiali, disegnano scenari vicini all’inverosimile. Ma il tono graffiato del conduttore in giacca e cravatta che non dimentica di essere un uomo, fiato vacillante, debole di pietà, pronto a scoppiare di affetto e dolore sincero verso una studentessa vittima di un oscuro martirio, ebbene questa sofferta autocensura dei sentimenti davanti al led luminoso di una telecamera, ci riconcilia con quel linguaggio caldo, empatico e non enfatico che i microfoni cinici e gracchianti delle news giornaliere non sanno più, purtroppo, cosa sia da tempo.

Stesso dicasi per le immagini quasi rubate dai video reporter intervenuti subito nel piazzale antistante la scuola “Morvillo Falcone” dove si è consumata la mostruosa deflagrazione. Riprese sconnesse, rese saltellanti e “sporcate”, come si dice in gergo, dagli eventi concitati, un teatro naturale senza infingimenti e manipolazioni di sorta che si stagliava di fronte agli zoom inermi: uomini del Soccorso con le pettorine arancioni, spirali di fumo, corpi ustionati a terra, fogli e quaderni svolazzanti, grida, materiale sanitario, cigolìo delle stecche delle barelle che si alzavano e abbassavano per raccogliere i feriti, volti tumefatti, sguardi che straripavano sconcerto, orrore, febbre. Niente a che vedere con le verniciature da tg alle quali assistiamo ogni volta che una notizia viene esumata e traslata dalla sua tumultuosa cogenza, dalla sua presa reale. Un giornale o una trasmissione televisiva possono essere, per dirla alla McLuhan, scambievolmente, caldi o freddi nel mercato odierno dei beni immateriali. E da tempo sostengo che la classificazione debba essere fatta tra  flow-media e glow-media, rispetto a come modificano le nostre fenomenologie esistentive, la nostra mappa di percezioni e valutazioni, il nostro personalissimo mondo-della-vita (Lebenswelt). Quando vediamo la televisione servire a qualcosa, fare una battaglia civica al posto nostro, riequilibrare le sorti fra torti e ragioni, sentiamo un flusso che ci pervade, una corrente di identificazione immediata: la realtà di cui ci parlano è la “nostra” realtà, quelle ingiustizie le abbiamo pesate e subìte tante volte sulla “nostra” pelle, l’idea di bene che trionfa e a cui assistiamo viene iniettata in maniera pulita nella “nostra” testa perché simbolizza appartenenza, circolazione di valori, unità di intenti. Flow significa proprio affluire, convogliare, riversare, scambiare energia. Quando vediamo in tv, invece, qualcosa che innesca solo i desideri più riposti, le brame di invidia ed emulazione, la voglia magica di affermazione  – come nei format defilippiani – abbiamo di fronte un bagliore, una forma di incandescenza, un surplus di calore, per l’appunto. Glow è proprio il fuoco del modello che arde di fronte al nostro sguardo, ma sradicato dalla terra su cui viviamo, fatichiamo, arranchiamo nella quotidiana lotta del tutti contro tutti. E’ decisamente “glow” un dispaccio Ansa delle 21.34 di sabato scorso che così riporta la cruciale decisione di Maria De Filippi di proseguire con la finalissima di Amici in diretta dall’Arena di Verona, nonostante l’attentato di Brindisi: «Questa trasmissione è per Melissa e per tutti voi che non chiedete altro che di vivere normalmente». Ma, cara De Filippi, quanto è lontana la sua idea di “normalità” così finta, costruita, deviata e divagante, rispetto a quella vissuta, spesso triste e condita di polvere e sangue, di chi cerca di disegnarsi un futuro andando nelle “vere” scuole a studiare per vincere un retroterra di emarginazione e mafia, creandosi dal basso quei sogni che un certo tipo di televisione autoreferente, quella del sogno e della fiaba che lei ben rappresenta, sistematicamente uccide gonfiandoli di nulla… Chi ha vinto in fin dei conti ad Amici anche quest’anno, per l’ennesima volta da quando lei è assurta a santa, regina, protettrice e benefattrice delle giovani generazioni e delle loro legittime aspirazioni a farsi un futuro, a mostrare quello che sono e sanno fare? Un ballerino di hiphop che a detta di tutti non aveva tecnica e studio alle spalle, rispetto alla concorrente arrivata seconda. E un cantante, tal Gerardo, votato sempre per bellezza, noto per la sua indisciplina e i suoi amorazzi sotto le telecamere. Sarebbe stato bellissimo se pure Melissa quel giorno non fosse andata a scuola, certa di una promozione per “simpatia”, senza voti, pagelle e sacrifici reali.

Carmine Castoro



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