Epoche. Stoviglie azzurre


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«A quest’ora che fai? Tosti il caffè: e il buon aroma si diffonde intorno? […] E rivedo […] l’iridisincere, azzurre d’un azzurro di stoviglia […] Talora – già la mensa era imbandita – mi trattenevi a cena. Era una cena d’altri tempi, col gatto e la falena e la stoviglia semplice e fiorita e il commento dei cibi […] M’era più dolce starmene in cucina tra le stoviglie a vividi colori: tu tacevi, tacevo, Signorina: godevo quel silenzio e quegli odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d’aglio di cedrina… […] Sotto l’immensa cappa del camino (in me rivive l’anima d’un cuoco forse…) godevo il sibilo del fuoco» [1].

Zando70meneghiGOZZANO

 

Questi versi memorabili di Guido Gozzano, da quando li lessi per la prima volta al Liceo, mi hanno sempre suscitato un piacere sottile, evocando in me un luogo sacro per eccellenza: la cucina, la mia cucina. Un rifugio sicuro dal mondo. Il mondo, «quella cosa tutta piena di lotte e di commerci turbinosi», dove la «vita ruvida concreta del buon mercante inteso alla moneta», prevale sopra ogni altra cosa. Come se avessimo smarrito il gusto delle cose semplici e buone; come se avessimo perso la consapevolezza della gioia che possono sprigionare… anche le stoviglie.

Io  ho sempre pensato che la felicità si nasconda anche negli oggetti e negli angoletti più gelosi e privati dei luoghi a noi più cari. Perciò ho amato la mia cucina e ho provato piacere ogniqualvolta adagiavo lo strofinaccio umido ad asciugare sulla mensola vicino al termosifone; perciò ho provato godimento nel riporre le riviste da leggere nei momenti di riposo, sul ripiano di vetro sotto la tv.

Frigo-Rex_01Ogni sabato dopopranzo, prima di partire per il paese, ricordo che mia madre stendeva il bucato ancora caldo in cucina e immaginavo le ore che sarebbero trascorse in quella pace inanimata, immota, tanto che io stesso avrei quasi voluto essere uno di quegli indumenti, cullato solo dal ronzio di un vecchio frigorifero Rex, flebile ma continuo, a ricordare, marcatore tecnologico, l’inesorabile ritorno della vita col nostro rientro, a tarda sera la domenica.

Un ritorno comunque desiderato di certo, dall’amata macchina da cucire Necchi, riposta – protetta – all’interno del suo tavolinetto, o della bilancia Little, testimone e complice del mio outing di miopia, quando dichiarando di non leggerne le scritte confessai il mio difetto di vista tra lo sgomento dei miei genitori.

La mia cucina di allora è sacra come una cattedrale. In quella stanza si è consumato tutto l’amore, il rispetto, la gioia intima della mia famiglia. Ogni giorno vi abbiamo spezzato il pane, abbiamo bevuto vino (rigorosamente annaffiato);  abbiamo ascoltato le parole di ciascuno e negli sguardi e nei sorrisi abbiamo sgranato le preghiere.

Ecco allora che ogni componibile, ogni cassetto, ogni stoviglia di quella cucina è come una reliquia da adorare. Così le teglie per le crostate inebrianti ad appannare i vetri le sere d’inverno; così la pentola gigante per i vasi di pomodori da cuocere a bagnomaria o gli anelli di acciaio per fermare i tovaglioli, con le iniziali di ciascuno di noi, forgiati dallo zio. Maestro battilastra. Sordo d’officina, ma dai muscoli d’acciaio e dal cuore d’oro.

E ogni sera in cucina si svolgeva il rito della cena: il momento più solenne dove, senza defezioni, ci riunivamo. Tutto cominciava già con la preparazione accurata della tavola. Apparecchiare con ordine era contemporaneamente un imperativo e un piacere. Disporre ogni posata in una posizione ben precisa, dare ad ognuno il proprio personale bicchiere, era come ribadire e rinnovare certezze. Nessun elemento veniva mai dimenticato: l’acqua, il vino, il pane, l’olio, l’aceto, il sale, il pepe, gli stuzzicadenti…

ImmagineAl paese il rito della cena del sabato sera si arricchiva ulteriormente grazie alla presenza di una vecchia “cucina economica” Zoppas [2].

Mio zio stringeva grosse fette di pane su salsicce e rigatina che sfrigolavano nella graticola sulla brace, rilasciando sughi succulenti. Un buccia di mela posta sul ripiano incandescente della stufa, attenti a che non carbonizzasse, avrebbe profumato l’aria subito dopo cena.

La cucina è il luogo sacro per eccellenza di ogni casa. È la stanza in cui si trascorrono più ore. L’ordine con cui vengono disposti gli oggetti e le suppellettili di una cucina, rispecchia la serenità e l’armonia di una famiglia. Sicuramente un salto di civiltà si è compiuto quando l’uomo, differenziandosi dagli altri animali, ha inteso il cibo non solo come mero nutrimento, ma come uno dei piaceri della vita. «Utrum hic panis sit plebeius an siligeneus ad naturam nihil pertinent: illa ventrem non delectari vult sed impleri» [3]. Da quel momento, andando oltre ciò che la Natura pretendeva, l’uomo ha deputato un luogo ben preciso per cucinare i suoi cibi e per goderne, liberando via via le briglie della sua fantasia e creatività: la cucina.

Ave-NinchiRealizzare piatti, inventarsi ricette, gustare pietanze è qualcosa dunque che suscita interesse e partecipazione in modo trasversale, coinvolgendo tutte le generazioni senza distinzione. Ecco allora che la televisione, il mondo dello spettacolo e ora soprattutto il mondo del business, non potevano lasciarsi scappare questa opportunità.

A tal proposito, da qualche anno, sembra esploso in tv il fenomeno delle gare di cucina. Il format MasterChef (il talent show culinario lanciato nel 1990 in Gran Bretagna) ha invaso il mondo e qui da noi sta entusiasmando un po’ tutti, anche i giovanissimi. Ma la grande tv italiana degli anni ’70 aveva già capito che la buona cucina poteva attrarre e intrattenere telespettatori, rispolverando in loro il piacere di stare a tavola, di godere il tepore e i profumi della propria cucina.
$(KGrHqZ,!joFBLZqqPlqBQlNCbDFng~~60_35Domenica 25 aprile 1971 alle ore 12.30 sul 1° canale Rai andò in onda la prima puntata di Colazione allo Studio 7, un programma scritto da Sergio Paolini e Stelio Silvestri, diretto da Lino Procacci con la consulenza dell’esperto enologo e gastronomo, l’anarchico Luigi Veronelli (1926-2004). Primo conduttore della trasmissione, l’attore Umberto Orsini.

«Una nuova rubrica che porta anche nella gastronomia il gusto di una competizione fine a se stessa che, secondo i dirigenti della RAI, è uno dei pochi meccanismi capaci di avvincere subito il telespettatore […] L’idea portante è quella di far cucinare in studio due piatti regionali (che dunque vanno scelti fra quelli con limitati tempi di preparazione) e di farli gustare ad una giuria che, tuttavia, non è fatta da esperti (oggi vedremo Luigi Magni, Eddy Ottoz, Gabriella Farinon e una signora campana). Bisognerà giudicare quale piatto sia cucinato meglio, mentre nel frattempo il telespettatore potrà fare lezione pratica di alta cucina popolare. Oggi, ad esempio, si potrà apprendere come si cucinano gli autentici “spaghetti alla carbonara” (che rappresentano il Lazio) e la “zuppa valpelleunentze” (che rappresenta la Val d’Aosta). In linea di principio, il vantaggio della trasmissione dovrebbe essere quello di insegnare a cucinare piatti rapidi, saporiti e poco costosi» [4].

Della prima serie di questo programma andarono in onda in tutto 10 puntate fino al 27 giugno 1971.

La seconda edizione diretta da Alda Grimaldi, prese avvio il 5 marzo del 1972. Ad affiancare Veronelli fu questa volta Delia Scala (1929-2004) che sostituì Orsini, impegnato con Luchino Visconti in Baviera, nelle riprese di «Luigi II». Andarono in onda 7 puntate in tutto fino al 16 aprile 1972.

0Per la terza edizione (12 puntate dall’8 aprile 1973 al 24 giugno 1973) venne chiamata la grandissima Ave Ninchi (1915-1997).

Dopo alcune perplessità iniziali di Veronelli l’attrice marchigiana lo conquisterà, come conquisterà tutti gli italiani: «Quando mi comunicarono che per la terza annata di “A Tavola alle 7” [in realtà la trasmissione assumerà questo nome solo l’anno successivo, ndr] Delia Scala (a sua volta subentrata a Umberto Orsini, ndr) sarebbe stata sostituita con Ave Ninchi, ebbi non pochi contrasti e i due autori il loro da fare per convincermi, poi scoprii che Ave, così diversa, era una compagna ideale; si stabilì una coppia, lei l’angelo familiare; io il demone per le mie puntualizzazioni continue ed esasperate» [5]; «Abbiamo un buon indice di gradimento ma è Ave Ninchi che è un mostro in bravura, ha una carica di simpatia innata; pensa che non legge neppure la scaletta della trasmissione; improvvisa tutto, è grande» [6].

 

«Introdotto dalla gustosa sigla musicale dal sapore brasilianeggiante opera di Fred Bongusto [con gli arrangiamenti di José Mascolo, ndr], parte il terzo ciclo (il secondo in onda da Torino) della prima grande trasmissione TV italiana che fa della cucina uno spettacolo, non senza momenti informativi ad alto livello. Dopo Umberto Orsini e Delia Scala, finalmente Colazione allo Studio 7 trova la guida ideale in Ave Ninchi. La grande e simpatica attrice, assistita dall’indubbio “physique du role” che la contraddistingue, ottiene un successo tale che finirà con il legarsi praticamente a vita al ruolo di esperta in arte culinaria» [7].

«Colazione allo Studio 7, in onda dalla tv di Torino la domenica alle 12.30, è una delle poche trasmissioni ad altissimo gradimento che vedono concordi i telespettatori. Sarà l’atmosfera casalinga, il piacere di riunirsi all’ora del pranzo a sentir trattare di cose buone, la simpatia di Ave Ninchi, la rubrica piace. Sembra persino più gradita di certi teleromanzi e degli inesauribili festival canori, tanto che il Radiocorriere ha riproposto tutte le ricette apparse sul teleschermo per soddisfare le richieste di apprendisti gastronomi desiderosi di cimentarsi con la semplice e genuina cucina regionale. Ad arricciare il naso saranno solo i cultori della macrobiotica e della dieta punti, ma in fondo pensare che c’è ancora qualche volonteroso che si lascia ispirare dal pollo alla siciliana, dallo stocco alla triestina o che attenua la nostalgia per la propria regione cucinandosi delle acciughe all’abruzzese, giustifica le speranze che il menù quotidiano si liberi infine dalla schiavitù «pasta, bistecca, insalata». Oltre che alla formula, gran parte del successo della trasmissione va ai personaggi, un’Ave Ninchi in grembiule, che sembra sempre in procinto di prepararsi ad impastare, un vispo Veronelli, una valletta graziosa e sbadata [Laura Tanziani Bonucci], alla quale rimproverare gli errori che, tutti compiamo quotidianamente davanti ai fornelli. Poi ci sono le cuoche, apprensive e un poco impacciate nel rimescolare ingredienti, trionfanti al momento della proclamazione del piatto vincitore; fanno corona celebri chefs, esperti dell’alimentazione, personaggi dello spettacolo, accomunati dalla ghiottoneria. I piatti sono semplici, gli ingredienti elementari, la preparazione rapida. Le due concorrenti però, in base alla ricetta della propria regione, devono introdurre un accorgimento personale: un particolare di sicuro interesse per le cuoche che dopo quindici anni trovano finalmente il sistema per variare il sapore dell’eterno arrosto. Molti dei piatti presentati a «Studio 7», oltre all’approvazione di Veronelli e della giuria come garanzia, si presentano con il favore di personaggi celebri e autorevoli conoscitori di cucina. Ecco ad esempio i polpi affogati, pietanza prediletta della napoletana Sophia Loren che di cucina ha anche scritto un volume, ecco il lombardo maiale al latte consigliato da Gino Bramieri, nota buona forchetta o l’anguilla alla fiorentina tanto apprezzata da Nada che sarà magrolina ma mangia per due» [8].

Insomma Colazione allo Studio 7 fu un successo totale. Dal 1974, quarta edizione, la trasmissione cambiò nome e collocazione. Divenne A tavola alle 7 e andò in onda il venerdì sera alle 19, sempre con l’ormai inseparabile coppia Veronelli-Ninchi. Seguirono altre tre edizioni per un totale di sette.

Ed è così che in queste settimane, trascinato dai miei figli ad assistere alle puntate di MasterChef, mi è tornata in mente quella deliziosa trasmissione di quarant’anni fa. Non c’è più la simpatia materna di Ave Ninchi nè l’autorevolezza garbata di Veronelli. Oggi la gara tra gli aspiranti cuochi è frenetica e i giudici, Carlo Cracco, Bruno Barbieri e Joe Bastianich, sono spietati, spesso rudi. È un segno dei tempi. Oggi un programma lento, pacato, senza agonismo acceso pare non essere più possibile. Il palato dei telespettatori sembra desiderare solo sapori forti. Ma nonostante ciò, anche nel ritmo agitato, incalzante, spesso delirante di questo show culinario, mi pare lo stesso di percepire gli “odori tanto tanto per me consolatori, di basilico d’aglio di cedrina”. Anche questo programma, pur così diverso da quello di allora, mi fa godere, per qualche istante, il calore rassicurante e dolce di una cucina. Come quello della mia cucina, di quel tempo ormai andato.

Gabriele Paradisi

 

Note

[1] Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità (1909).

[2] La cucina economica a legna costituisce sicuramente una delle soluzioni più ingegnose e utili che mai siano state pensate dall’uomo. Provvista di moltissimi accessori poteva essere utilizzata per diversi usi domestici. Consumava tra l’altro meno combustibile rispetto al camino tradizionale, riscaldando di più l’ambiente. Era costruita in ghisa, acciaio e refrattari. Sulla piastra principale si appoggiavano le pentole e i tegami per cuocere i cibi. Nello sportellino principale vi si introduceva la legna o la carbonella, mentre nel cassettino sottostante si ammucchiava la cenere che poteva essere utilizzata per vari altri scopi, come concime o per sbiancare il bucato. Lateralmente c’era il forno e lo scaldavivande (in cui si potevano riporre anche pantofole o altri indumenti a riscaldare). Sempre a lato vi era un profondo serbatoio estraibile per l’acqua calda. Nella canna fumaria potevano essere inserite delle celle Peltier per produrre corrente. Per estrarre gli anelli di ghisa concentrici a grandezza variabile si utilizzava un ferro di acciaio lungo sui 50 cm. Sulle piastre si potevano far scaldare anche appositi ferri da stiro. Attaccato alla canna fumaria infine si poteva mettere poi uno stendino a raggiera per asciugare i panni. Un meraviglia insomma.

 

[3] «Che il pane sia comune o raffinato, questo non riguarda la Natura: essa non vuole fare godere lo stomaco, vuole riempirlo» (Seneca, Epistole morali a Lucillo).

 

[4] Oggi vedremo: Colazione allo Studio 7, l’Unità, 25 aprile 1971.

 

[5] Aldo Grasso, Il pioniere dei cibi in tv, trent’ anni fa con Ave Ninchi, Corriere della Sera, 1 dicembre 2004.

 

[6] Da un’intervista a Veronelli del giornalista de Il Mercurio Luigi Angelino, al Festival della grappa del 1975, nell’alessandrino.

 

[7] Cesare Borrometi, Lunario dei giorni di tele – La TV degli anni d’oro come non è mai stata narrata, MEF Firenze Libri, 2012, 327 pp.

 

[8] Donatella Giacotto, Come mangiano bene, Stampa Sera, 22 giugno 1973.

 



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