Epoche. I giorni felici


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La mattina di lunedì 5 dicembre 1977 la mia classe, la V F, si reca in pieno centro città al Cinema Teatro Giuseppe Mazzini. In programma le commedie: Il fiore in bocca e La patente di Luigi Pirandello e L’orso di Anton Pavlovich Checov.

Mercoledì 7 dicembre, sempre la V F, raggiunge in pullman la magica Venezia per una puntata alla Biennale. Il presidente Carlo Ripa di Meana quell’anno ha coraggiosamente deciso di intitolarla “Tecniche del consenso e forme del dissenso all’est”, suscitando vibranti proteste politico diplomatiche da parte di Mosca. Compunti ed eccitati assistiamo ad un dibattito sul teatro e visitiamo la mostra tra dipinti clandestini e samizdat. Al colmo dell’estasi cultural-politica piazziamo su un piedistallo in un corridoio laterale una lattina di Coca Cola semi-schiacciata a rappresentare un dissenso, di certo più moderato, anche nei confronti dell’economia di mercato, allora lanciata verso inesorabili sorti magnifiche e progressive.

Giovedì 8 dicembre alle ore 19.20 sulla rete 1 della Rai va in onda la prima puntata della serie di telefilm Happy Days.

Mercoledì 14 dicembre «viene presentato a New York in prima mondiale il film Saturday night fever (La febbre del sabato sera), diretto da John Badham, scritto da Norman Wexler e ispirato a un raccontino di Nick Cohn. Interpretato da John Travolta il film racconta le avventure di una coppia di giovani proletari i cui problemi gravitano quasi esclusivamente intorno a una discoteca. Si avvale di una lussuosa colonna sonora che comprende brani di artisti come i Bee Gees, i Trammps, Kool & the Gang, i Tavares, gli MSFB, K.C. & the Sunshine Band e Yvonne Elliman. È l’inizio del boom della disco music, ma soprattutto è l’inizio della cultura del “riflusso” che troverà negli anni Ottanta il suo trionfo» [1].

Venerdì 16 dicembre sul secondo canale Rai alle 21.50 per la serie Il teatro dell’assurdo, va in onda la commedia, adattata per la Tv da Andrea Camilleri, Le ricomparse di Arthur Adamov (esponente dell’avanguardia postbellica parigina) con Lilla Brignone e Alessandra Dal Sasso. Il venerdì successivo, 23 dicembre, viene trasmessa la commedia di Samuel Beckett Finale di partita, con Renato Rascel, Adolfo Celi e Rina Franchetti. Alla regia sempre lo scrittore e sceneggiatore di “Vigata”.

Un pomeriggio di quel sorprendente e intenso dicembre 1977, con alcuni compagni della V F programmiamo di andare al cinema. È arrivato in città il fenomeno del momento: Guerre stellari [2].

L’incalzante sequenza di stimoli di quelle poche settimane è solo un assaggio di quanto potesse e possa essere ricca, piena di aspettative e di emozioni la vita quando si hanno diciotto anni e ragionevolmente «dentro agli occhi, dentro al cuore, tanti giorni ancora da passare» [3]. Arte, cultura, musica, teatro, cinema, politica, intrattenimento leggero, amicizie, amori ma soprattutto gioventù, si mischiano e si fondono in un irripetibile impasto esplosivo di vitalità e di vigore.

Come mi è già capitato di dire, tutto quello che giungeva da oltre Oceano suscitava in noi immancabilmente un misto di ammirazione e di diffidenza. L’ammirazione per un piacevole modello di vita, ricco di luccicanti prodotti da consumare, che piano piano si stava insinuando nella società intera come un canto che «dalle argute labbra, alletta il passeggier» [4], ma anche la diffidenza, appunto, che scaturiva dalla romantica utopia che un mondo ancora migliore, fatto di bandiere resistenti e di immaginazione, fosse realmente possibile.

La stampa ispirata a questo secondo schema stroncava senza pietà la saga di Lucas. «Innanzitutto, cominciamo col dire che Guerre stellari non è un film, bensì un prodotto, un giocattolone per super minorenni che non lascia scampo alla fantasia.

Quale fantascienza? Qui siamo in pieno revival dell’«eterno infantile». Anche sul piano del puro modellismo, un’ovvia delusione. Ovvia, perché il film resta in bilico fra la precaria verosimiglianza degli oggetti futuribili (hanno speso tanti soldi, ma non si vede mica) e l’impossibile fuga nell’irrazionale. Insomma, si ha l’aria di giocare al flipper per un paio d’ore, e la sola idea ci pare estenuante.

I giovani interpreti principali, poi, Carrie Fisher in testa (la figlia di Eddie Fisher e Debbie Reynolds è una patatina aspra) recitano secondo gli schemi della logora filodrammatica televisiva americana» (l’Unità, 21 ottobre 1977).

Noi, ragazzi della V F invece, apprezzammo il filmone, tanto da restare in sala per vederlo una seconda volta, sorvolando con indulgenza i passaggi più stucchevoli. In realtà non completammo la seconda visione per una ragione molto semplice e assolutamente valida: alle 19.20 iniziava Happy Days!

Quei telefilm che guardavamo con ingorda attenzione dall’8 dicembre ci avevano letteralmente stregato. Così alle sette, chi col motorino, chi in bicicletta, tornammo ognuno a casa propria per non perderci le lievi avventure di Fonzie, Richie, Potsie, Ralph, Marion, Howard, Joanie…Il successo di quella mitica serie ─ 255 episodi distribuiti in undici stagioni dal 1974 al 1984 ─ ha superato i confini dello spazio e del tempo tanto che non occorre richiamarne i contenuti perché a tutti, anche ai giovanissimi di oggi, è capitato di assistere almeno ad un episodio, rimandato dalle tv o recuperabile in rete [5].

«Negli anni ’70 gli Stati Uniti attraversarono un periodo della loro storia abbastanza contraddittorio: a fronte di una indiscussa leadership mondiale nel campo della tecnologia, della economia e delle scienze ebbero grossi problemi sociali legati a un’opposizione interna, tipicamente giovanile, che manifestava apertamente contro l’impegno bellico in Vietnam e contro il razzismo. Il clima sociale non era quindi dei migliori e la televisione cominciò ad avere seri problemi nell’ambientazione dei propri serial: una serie televisiva ambientata negli anni ’70 non poteva essere improntata a un eccessivo ottimismo senza rischiare di scadere nell’anacronismo più evidente. Per aggirare questo problema la ABC (American Broadcasting Corporation) diede l’incarico al produttore televisivo Garry Marshall di individuare un’epoca storica in cui ambientare una serie televisiva che facesse facilmente presa sul pubblico e che fosse improntata a una serenità di fondo non riscontrabile negli anni ’70. I periodi proposti furono gli anni ’30 (il periodo del “new deal” di Roosevelt) e gli anni ’50, ovvero uno dei periodi di maggiore fulgore della società americana: Marshall optò per gli anni ’50 perché era il periodo che conosceva meglio in quanto periodo della sua adolescenza» [6].

Così, a voler essere crudi e realistici, «anche quella [di Happy Days] era propaganda, un ago ipodermico che piegava i cervelli». Da che mondo è mondo ogni “Sistema” si lascia andare a intenti strumentali propinando messaggi di irreale calma per distogliere volutamente le persone pensanti dai problemi reali, ma soprattutto per allontanarli dall’impegno concreto, dalla partecipazione. Anche Happy Days dunque fu uno strumento di questo tipo? Forse, ma per fortuna non fu solo questo. E quello che fu è immensamente più importante di ogni altra cosa. «A quei tempi non ce n’era uno della nostra età che non desiderasse avere un padre come Howard Cunnigham, tutto ciccia e sorrisi, battute e occhi gentili. Avremmo impiegato almeno altri dieci anni per capire che non solo nostro padre non sarebbe mai stato così, ma tantomeno noi stessi saremmo diventati uomini del genere […] Siamo stati Fonzie, ci siamo divertiti, abbiamo fatto il gesto dei pollici e la prima volta che abbiamo messo una giacca di pelle s’è pensato a lui: però, dai, a un certo punto è diventato chiaro che era soltanto il personaggio di un telefilm. C’era anche il partito di quelli che preferivano Richie, ovviamente: Richie era rossiccio di capelli e va bene che era impacciato e si aggrovigliava sempre le dita davanti alle ragazze, ma lui un amico come Fonzie ce l’aveva. Noi cosa avevamo? Quello andava in giro con uno che come niente tirava fuori cose tipo: «Lei è un mortale, io sono un Fonzarelli»; perciò anche Richie, a suo modo, era un Grande Eroe. E che diavolo: se uno come Fonzie l’aveva scelto come amico, caspita, chissà che grandi doti aveva pure lui. «Ehi, cosa c’è? Hai tutte le gomme a terra», Fonzie diceva per incoraggiare qualcuno che sembrava un po’ abbacchiato. Oppure alle donne: «Se vuoi trovare qualcosa di splendido guarda dalle parti delle mie labbra». Erano frasi da far rotolare i bicchieri per terra, era l’apoteosi della rivincita per noi un poco sfigatelli, prede di paure e ataviche assenze di peli che sembravano perenni. Ci guardavamo gli avambracci cercando quelle vene robuste come funi e non trovandocele mai: allo specchio era tutto uno scrutare e un ricercare, ma per quante ore si passassero con un rasoio finto in mano, degli uomini che saremmo diventati non se ne vedeva ancora traccia. C’era Arnold, c’era American Graffiti, c’era Peggy Sue, c’erano i Beatles, però alla fine si parlava sempre di Fonzie e di Happy Days: sarà che in quei bar ci saremmo finiti tutti prima o poi e forse questo, in qualche modo, lo percepivamo nelle dita. Tutti saremmo diventati dei vecchi ubriaconi, cazzari innamorati della cameriera o dell’amica di qualcuno a cui non saremmo mai arrivati; perciò ci piaceva tanto guardare Happy Days. È di noi che si parlava, delle nostre vite future, dei nostri brindisi a nuovi lavori, grandi amori e coraggiosi traslochi. Eravamo sprovveduti e pieni di speranza, anche se il migliore di noi avrebbe dovuto aspettare altri venti o trent’anni perché qualcosa si muovesse davvero. Guardavamo Happy Days in saloni inondati di luce con tutti i compiti ancora da fare; guardavamo Lory e Jenny nei loro vestitini rosa e ammiravamo i loro modi pacati, la totale assenza di ammiccamenti sessuali. Osservavamo seduti sui pavimenti il loro modo di incrociare le braccia e mettere il broncio e pensavamo che così avrebbero fatto tutte le donne della nostra esistenza. E poi ─ diciamoci la verità ─ eravamo niente che doveva ancora essere qualcosa. Era troppo presto per tutto. Fonzie diceva: «Tre sono le persone di esistenza sicura nel mondo e sono Fonzie, il Papa e il mitico Elvis» e noi spegnevamo il televisore certi che le cose andassero proprio così lì fuori. Ma la vita si doveva ancora infrangere contro le sue scogliere di delusioni e perfino l’America ─ per quanto ne sapevamo noi ─ doveva ancora essere scoperta.

Adesso Happy Days s’è spento. Ci sono tutte le sedie rivoltate sui tavoli:  siamo passati per le prime sbronze e certi mal di stomaco. Siamo passati per le giacche di pelle e gli anfibi più grandi di una misura. Siamo passati per i primi litigi e abbiamo scoperto che al mondo non è rimasto nessuno che incroci le braccia. Abbiamo perduto perfino McGyver [7], Arnold è cresciuto, l’A-Team [8] ha smesso di sparacchiare dal retro del suo furgone nero, Peggy Sue è morta, John Travolta ha messo i capelli bianchi, le Harley Davidson ci disturbano il sonno nelle notti d’estate. Era solo Fonzie, ma eravamo noi. Era un ragazzo con un ciuffo alla Elvis e dei denti bianchissimi che si muoveva sicuro tra i juke box e le note di Buddy Holly e Roy Orbison. Era uno che guidava una decappottabile dalla cui autoradio gracchiava fuori il primo rock’n roll di Billy Haley. Era un tale con una giacca di pelle che prendeva le donne per la vita e la vita per le spalle. Era un telefilm talmente pieno di speranza…» [9].

Ecco. La chiave sta proprio qui. Io credo che ciò che ci incollava alla sedia e ci lega ancora a quei brevi telefilm da 25 minuti sia il nostro eterno bisogno di serenità, anche se nel mondo sappiamo, e magari cerchiamo, inquietudine.

L’esigenza di serenità e di ottimismo non ha solo radici d’interesse per finalità politiche o economiche. Credo sia un bisogno profondo e irrinunciabile che cova dentro ognuno di noi per tentare, spesso inutilmente, di contrastare i lati più oscuri della nostra natura.

Purtroppo nessuno si può onestamente illudere che esista un mondo idilliaco ed edulcorato come quello raccontato da Happy Days. Sappiamo tutti quali drammi, quali tensioni si annidino quotidianamente nei consessi umani e perfino, anzi soprattutto, all’interno delle famiglie. Le nostre, anche nei casi migliori e la mia per fortuna lo fu, non erano come i Cunningham ed il mondo fuori non sarebbe mai stato quello che ci rappresentavano in quelle deliziose storielle. Lo sapevamo già da allora, forse. I telegiornali ci avevano portato in casa, all’ora di pranzo o di cena, non trascurando nessun particolare, nemmeno i più truculenti, le tragedie che regolarmente esplodevano ed esplodono nei soggiorni o nelle camere da letto di persone insospettabili e apparentemente irreprensibili. Nonostante ciò, credo che ci piaccia comunque pensare diversamente. All’epoca ci piaceva credere che la latteria all’angolo, quella dove andavamo a far spesa per la mamma, dove sorseggiavamo già i nostri primi “amari” caffè e ci davamo appuntamento con gli altri a chiacchierare del futuro, somigliassero ad Arnold’s; ci piaceva credere che il “Campus” del nostro Liceo, la collinetta su cui ci intrattenevamo con qualche ragazzina dai capelli rossi o il prato dove provavamo anche noi a giocare a baseball, fossero uguali a quelli laggiù, nel lontano e misterioso Wisconsin. Così come le nostre odorose palestre la sera, dopo la partita di pallavolo, appena prima di tornare sorridenti nelle cucine imbandite delle nostre madri.

Nei teenager esiste ancora quel pizzico di innocente candore, l’illusione che la vita possa realmente dipanarsi sempre con leggerezza e con gioia, ed Happy Days colse appieno questo aspetto, che ripeto altro non è che un’irrefrenabile esigenza umana.  Happy Days ci ha fatto vedere come anche nella semplicità – le storie raccontate infatti erano quasi impalpabili, senza eccessi o effetti straordinari – sia possibile, forse, essere felici, sereni, in pace.

E allora il messaggio di quei telefilm toccava (e tocca ancora) le nostre corde intime. Forse le più sane.

Oggi, i reality show che guardiamo coi nostri figli adolescenti e bambini, hanno la stessa funzione diversiva, ma manca quasi completamente quel messaggio di speranza e di serenità. In essi ci si trova quasi solo volgarità, competizione, tendenza a modelli di vita anch’essi irreali, come quelli dei ragazzi di Milwaukee, ma sicuramente più vuoti. Io credo che il traguardo più ambito di ogni uomo sia il raggiungimento della felicità. Della serenità. Non tutti ne sono consapevoli purtroppo. Io, che pure mi lascio trasportare dalle turbolenze della vita, non cambierei la pace interiore (che è anche pace con l’universo intero), con tutto l’oro del mondo. E credo che non guasterebbe ricordarlo ogni tanto ai giovani.  Sarà per questo allora, che nel portafoglio tengo la Card n. 423 di socio ordinario dell’International Happy Days Fan Club; sarà per questo che quando sono stato in California ho portato i miei figli al numero 565 di Cahuenga Boulevard a Los Angeles dove, nonostante la storia fosse ambientata a Milwaukee nel Wisconsin, c’è la casa dei Cunningham [10].

Gabriele Paradisi

 

Note

[1] Giuliano Rebonati, Buon compleanno Radio Punto Zero – la musica, 13 agosto 2010; ma anche Gianni Lucini, Con la disco music iniziano gli Ottanta, 3 dicembre 2011.

[2] Col titolo di Guerre stellari venne distribuito in Italia il 21 ottobre 1977 il primo film della saga Star Wars per la regia di George Lucas. In America era uscito il 25 maggio 1977. Solo questa prima pellicola della saga ha generato incassi per oltre 775 milioni di dollari.

[3] Francesco De Gregori, Gesù bambino, 1979.

[4] Il canto delle Sirene dal libro XII dell’Odissea.

[5] Per chi voglia approfondire i contenuti e leggere aneddoti e curiosità di ogni genere, può farlo visitando l’esaustivo e ricchissimo sito dedicato a quella trasmissione cult: http://digilander.libero.it/happydays/default.htm

[6] Gianpietro Vairo, Happy Days, Pagine70.com, 7 dicembre 2002.

[7] McGyver era una serie televisiva americana degli anni ottanta che raccontava le gesta dell’ex-agente segreto Angus Mac MacGyver, interpretato da Richard Dean Anderson. Venne realizzata tra il 1985 e il 1992.

[8] A-Team era una serie televisiva americana degli anni ottanta che raccontava le gesta di un commando di ex combattenti della guerra del Vietnam, i quali accusati ingiustamente di reati non commessi si riscattano lavorando come mercenari al servizio dei deboli e oppressi contro le ingiustizie. Venne realizzata tra il 1983 e il 1987.

[9] Questo brano è tratto da un post che mi venne inviato dal blogger Stefano [Havana] nell’ottobre del 2006. Stefano era uno dei fondatori di Noantri (un blog allora ospitato sulla piattaforma Splinder: http://noantri.splinder.com/). Di sé scriveva: «Passa il suo tempo a leggere e a scrivere. Scriverebbe sempre, senza smettere mai. Affetto da megalomania acuta, ha la reale presunzione di essere il più grande talento letterario dopo Italo Calvino. Da grande vuole fare lo scrittore, nel frattempo fa il giornalista: il suo problema è che grande non ci diventerà mai. O, se lo farà, sarà nella terra di cui si è innamorato: quella amada, calda e contraddittoria Cuba».

[10] La bianca casa di Cahuenga Boulevard fu utilizzata solo come inquadrata per le  riprese degli esterni.



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