Epoche. Musica per voi


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Le mie mattine estive da bambino trascorrevano nella palude morbida dell’inconsapevolezza. Proiettato esclusivamente alla ricerca istintiva del benessere, che di fatto coincideva con lo stato di pace e di serenità che mi infondevano le cose e le persone semplici ed amorevoli che mi circondavano, trascorrevo il tempo crogiolandomi nei miei immaginifici pensieri e nel gioco, talvolta audace. In quel brodo caldo e profumato attendevo di crescere. Senza fretta.

Ogni minuto speso languidamente nel nulla non è, come all’apparenza sembrerebbe o come vorrebbero farci credere, tempo buttato o perso. Tutt’altro. È miele per i giorni a venire. È un conforto postumo a lenire lo stress della frenesia di questi nostri giorni impazziti. È un profetico sorso di liquore dolce in mezzo al frastuono del traffico caotico, a contrastare «il logorio della vita moderna», come ci raccontava con felice intuizione un carosello di tanti anni fa. Il grande Ernesto Calindri, seduto ad un improbabile tavolo nel bel mezzo di una strada, leggeva tranquillamente il giornale, sfiorato da decine di auto impazzite: «Non arrabbiatevi per un nonnulla, purtroppo i nostri nervi sono sempre a fior di pelle perché il ritmo della vita moderna ci sottopone ad un logorio continuo, incessante…», recitava la réclame del Cynar, l’aperitivo a base di carciofo… [1].

È solo calandoci nella «lentezza» che possiamo sperare di riassaporare le nostre personali madaleine, e recuperare ogni frammento degli istanti che abbiamo vissuto, cogliendone la vera essenza. E per ripristinare le scene originarie nella loro primigenia espressione, dobbiamo attivare tutti i nostri sensi; quegli stimolatori inconsapevoli che allora, in quei precisi istanti, erano attivi ed erano la fonte delle nostre sensazioni, di quelle emozioni che ci sono entrate dentro e che non sono più andate via. Sono solo nascoste da qualche parte, basta cercare.

E allora il senso forse più semplice da riaccendere sul passato è quasi sicuramente l’udito. Ecco allora che alle ormai flebili voci dei familiari e dei compagni di gioco, si sommano, determinante  sottofondo, le musiche – rimasterizzate – di quel tempo. Se recuperare un filmato, una foto, un giornale di quaranta anni fa non è immediato, ritrovare e riascoltare una canzone oggi è un gioco da ragazzi. Così, quasi certamente, ognuno di noi ha in qualche cassetto almeno un cd con una compilation di vecchie musiche a lui care.

Riandando col ricordo a quelle estati di fine anni ’60, posso affermare, senza ombra di dubbio, che la colonna sonora di quei miei ultimi giorni da bambino, furono le musiche emanate dalla trasmissione radiofonica Musica per voi diffusa dall’emittente Radio Capodistria. Pochi anni dopo, anche la televisione di quella città della scomparsa Jugoslavia, Tele Capodistria, ricevuta regolarmente nella nostra provincia rivierasca, porterà nuovi stimoli e le prime trasgressioni ad anticipare l’avvento delle tv private italiane.

Sul finire di quel decennio dunque, quella Radio era forse l’unico luogo che consentiva, rispetto agli ingessati (fino ad allora) programmi nazionali, una discreta libertà e soprattutto la partecipazione. La trasmissione infatti era incentrata sulle dediche a richiesta che gli ascoltatori potevano effettuare semplicemente telefonando. Così ogni giorno, all’ora di pranzo, sintonizzavamo diligentemente la nostra radio a valvole Phonola su quella esotica stazione, consapevoli di ascoltare, instancabilmente, immancabilmente, le solite canzonette: la rassicurante certezza dell’ordinario. Incredibilmente, le allora non tantissime famiglie dotate di apparecchio telefonico, parevano prediligere un numero limitatissimo di canzoni. O forse la collezione di dischi della redazione di Radio Capodistria non era ricchissima. Fatto sta che su tutte le richieste spiccavano ogni santo giorno: Mamma, Romagna mia e Bandiera rossa.

Soprattutto Mamma – 1940, cantata da Beniamino Gigli – mi infondeva un senso di profonda inquietudine, tanto che nel notiziario che faceva da intermezzo alle dediche, temevo ingenuamente sempre di ascoltare la notizia di un incidente occorso ai miei familiari al lavoro.

Ma in quell’inizio d’anno (era il 1967) qualcosa stava cambiando. Un vento fresco stava alzandosi e avrebbe spazzato via in men che si dica quelle incrostazioni di un tempo ormai andato, anche dai luoghi che fino a quel momento avevano resistito impassibili all’onda del rock and roll, alla rivoluzione beat dilagate quasi ovunque nel mondo. Anche in radio dunque, sarebbe giunto il nuovo. Anche nella mia cucina.

Forse tutto ebbe inizio il 6 gennaio 1967, giorno della Befana, quando alle ore 13 sul secondo canale Radio Rai, condotta da Lelio Luttazzi, prese avvio Hit Parade, la classifica degli otto brani più venduti ed ascoltati. Un nuovo soggetto, esuberante, debordante, era entrato in gioco nella diffusione musicale: i giovani. Quelli che comperavano i dischi e li volevano poi riascoltare non solo nei juke-box dei bar o in balera. I nostri fratelli maggiori imponevano sonorità nuove destinate a scalzare in un battibaleno decenni e decenni di melodie classicheggianti. Per Mamma era proprio finita.

Chi aveva trovato nella orecchiabilità di una canzonetta, o nella disarmante, banale semplicità di un testo, la chiave per risorgere dalla retorica ermetica di un regime e dall’incomprensibilità di certi messaggi mortali a cui tanti avevano creduto, non riusciva a comprendere quei nuovi protocolli.

L’ostile opposizione al nuovo per taluni fu totale.

Nella mia profonda provincia poi, le musiche dalla «perfida Albione» giunsero tardi ed attenuate. Dieci anni d’età, poco più, dividevano mio padre dai musicisti che stavano cambiando il mondo, eppure un muro invalicabile era posto tra di loro.

Mio padre – un bacio al cielo – non avrebbe mai capito fino in fondo il perché di quel cambio di lingua (dall’inglese al francese) di Michelle (The Beatles, 1965); mai avrebbe compreso l’interminabile, ripetitivo fino allo stremo, crescendo finale ed inarrivabile di Hey Jude (The Beatles, 1970). E mai li capì.

Pochi in verità, anche più aperti e giovani di mio padre, capirono quello che accadde il 27 gennaio 1967, alle 2,30 della notte, nella stanza 219 dell’hotel Savoy, «nella città dei Fiori».

Il cantante, allora semisconosciuto, Lucio Dalla, che alloggiava alla stanza 215, arrivò per primo attirato dalle grida disperate della cantante italiana, naturalizzata francese, Dalida, tragica compagna del tormentato cantautore genovese Luigi Tenco [2].

Riverso sul pavimento in un lago di sangue, con ancora indosso gli abiti di scena, giaceva un «giovane angelo che girava senza spada» [3].

«Io ho voluto bene al pubblico italiano… non sono stanco della vita (tutt’altro)…», c’era scritto nel biglietto trovato accanto al corpo.

«Ciao amore ciao, andare via lontano a cercare un altro mondo… dire addio al cortile, andarsene sognando… Non saper fare niente in un mondo che sa tutto… Ciao amore ciao», aveva appena terminato di cantare all’ingrato pubblico del Festival.

Quello stesso 27 gennaio Daniele Ionio su l’Unità, nell’articolo “L’arrivo di uno Stones scuote Sanremo (più di Modugno)”, aveva scritto profeticamente: «Una canzone che non finirà con Sanremo è sicuramente Ciao amore ciao di Luigi Tenco e Dalida, la unica che, sia pure senza sforzarsi eccessivamente, abbia tentato di dire qualcosa di verosimile».

A quella morte assurda il Quartetto Cetra [4] reagì come un sol uomo!

«Caro ministro del Turismo e dello Spettacolo [Achille Corona] chiediamo la sospensione del Festival perché la morte di Tenco è un’evidente conseguenza della drammatizzazione di un ambiente contagiato da fini esclusivamente commerciali».

Il ministro non rispose. The show must go on! Mi sembra si dica…

E «l’uomo della televisione disse: “Nessuna lacrima vada sprecata, in fin dei conti cosa c’è di più bello della vita, la primavera è quasi cominciata”» [5].

Claudio Villa e l’Aquila di Ligonchio [Iva Zanicchi] (che cantò pensando alla mamma) vinsero la manifestazione con la canzone (ironia della sorte): “Non pensare a me”.

Ecco. La soluzione suggerita ed elevata sugli allori fu quella di non pensare. Di non pensare a Luigi Tenco, di non pensare alla morte. Di non pensare a nulla. E così in effetti nessuno capì.

Gabriele Paradisi

 

 Note

[1] Il felice spot del Cynar, ideato nel 1966, fu utilizzato fino al 1984. Ernesto Calindri (1909-1999), grande attore di teatro, entrò nel cuore della gente, anche di coloro che se non conoscevano Shakespeare, Molière o Pirandello, proprio grazie alla simpatia e alla bonarietà che infondeva in quei gustosi siparietti televisivi.

[2] La cantante Dalida, tentò di uccidersi a sua volta il 26 febbraio 1967, ingerendo una forte dose di barbiturici in una stanza dell’hotel parigino George V. In seguito tentò ancora di uccidersi nel 1977 ed infine riuscì nel tragico intento il 3 maggio 1987. Accanto al suo corpo venne trovato un biglietto in cui era scritto: «Pardonnez-moi, la vie m’est insupportable» (Perdonatemi, la vita mi è insopportabile).

[3] Francesco De Gregori, Festival (1976).

[4] Il Quartetto Cetra era composto da Felice Chiusano (1922-1990), Giovanni Giacobetti detto Tata (1922-1988), Lucia Mannucci (1920-2012) e Virgilio Savona (1920-2009).

[5] Francesco De Gregori, Festival (1976).

 



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