Epoche. Carosello e il Supercapitalismo


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«Il supercapitalismo inizierebbe verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando l’America aveva creato un capitalismo democratico, inteso come un’economia pianificata, sia pur diretta dalle grandi corporation. Le famiglie americane, che in quegli anni erano prevalentemente composte da operai e impiegati, godevano di salari decenti, di garanzie sindacali, del posto di lavoro, di stabilità economica, di assicurazione sulla malattia e sui diritti alla pensione».

Così scriveva Guido Rossi il 30 maggio 2008 su Repubblica nell’articolo “Così il supercapitalismo uccide la democrazia”.

Ma proprio sul finire degli anni ’70 appunto, accade qualcosa: «l’economia americana si apre a mercati più concorrenziali e il potere si sposta dai cittadini verso i consumatori e gli investitori e così gli aspetti democratici del capitalismo declinano».

L’articolo di Guido Rossi (che tra l’altro è stato anche presidente della Consob dal 15 febbraio 1981 al 10 agosto 1982, mentre attualmente è garante etico dello stesso organismo), altro non è che una compiaciuta recensione ad un libro di Robert B. Reich pubblicato negli Stati Uniti dall’editore Alfred A. Knopf nel settembre 2007: Supercapitalism. The Transformation of Business, Democracy, and Everyday Life (in Italia è stato pubblicato nel maggio 2008 da Fazi nella collana Le Terre, col titolo Supercapitalismo. Come cambia l’economia globale e i rischi per la democrazia, 320 pagine).

 

Reich, professore a Berkeley, già ministro del lavoro sotto la presidenza di Bill Clinton ed attualmente uno dei consiglieri economici di Barack Obama, quindi a tutti gli effetti un “integrato” nel sistema e nel modello di sviluppo capitalistico occidentale, arriva nel suo libro ad una conclusione a suo modo sconvolgente e rivoluzionaria.

Secondo Reich infatti «la concorrenza uccide la democrazia». Questa audace affermazione ovviamente fa cadere proprio uno dei pilastri del liberismo e cioè la convinzione che «il libero mercato sia prodromico alla democrazia».

È pur vero che da anni ormai nessuno crede più alle “sorti magnifiche e progressive” del liberismo, ma se a dire ciò che abbiamo appena sentito, non è un irriducibile e grigio economista sopravvissuto a qualche piano quinquennale di sovietica memoria, ma nientemeno che un Chancellor’s Professor alla Goldman School di Public Policy dell’Università della California di Berkeley, la cosa lascia il segno.

Secondo Reich dunque, il nuovo comandamento della globalizzazione ha portato a produrre in ogni angolo della terra al minor costo possibile e ad utilizzare i vantaggi offerti dalla rete per estendere al massimo il proprio mercato, ma ciò è avvenuto e sta avvenendo a scapito dei diritti dei cittadini ovvero dei diritti e delle tutele di cui ogni cittadino in quanto tale dovrebbe godere, naturalmente, in una democrazia.

In sostanza, sempre secondo Reich, l’essere umano può essere visto come l’insieme di due distinte e ahimè inconciliabili anime [ciò, capite bene, già è l’anticamera della schizofrenia]: da un lato vi è il consumatore (e/o investitore) dall’altra il cittadino vero e proprio a tutto tondo.

La componente consumatore/investitore nel sistema odierno trova appagamento poiché può reperire sul mercato sempre nuovi prodotti, ogni volta migliori e a prezzi sempre più bassi. Contemporaneamente però l’altra sua metà, ovvero il cittadino in quanto tale (pertanto il lavoratore, il padre di famiglia, lo studente, il precario, il disoccupato, il pensionato, l’invalido), vede ridursi sempre di più le tutele ed i servizi che lo Stato gli dovrebbe fornire («il metodo più semplice di abbassare i prezzi è quello di tagliare salari e i diritti dei lavoratori»).

È evidente che poiché nello stesso essere umano convivono queste due diverse e inconciliabili nature, la forbice che le separa può diventare assolutamente devastante. Come si può infatti, senza entrare in crisi, accettare o rifiutare quella doppia morale che ci fa desiderare beni a basso costo pur senza preoccuparci del prezzo da pagare per la collettività?

 

E ora andiamo a vedere nel pratico cosa accadde da noi negli anni Settanta, quando appunto il “supercapitalismo”, secondo Reich e Rossi, vide la luce. Facciamo viaggiare i ricordi e le emozioni.

 

Nell’Italia del boom economico, tra gli anni ’50 e ’60, nell’Italia in bianco e nero, giovane e vitale, quella che usciva da una guerra sanguinosa e brutale, sappiamo tutti quanto la televisione contribuì a consolidare, o forse sarebbe meglio dire a creare, il senso di nazione. La televisione funse da vero e proprio collante, da omogeneizzatore di culture e di dialetti, fu la prima vera scuola virtuale e distribuita. Produsse i primi luoghi comuni, le prime frasi condivise, fece grandi attori e attrici in cui ognuno poteva riconoscersi senza differenze dalla Sicilia al Trentino.

Come possiamo, ad esempio, dimenticare Non è mai troppo tardi, la trasmissione tardo pomeridiana condotta dal mite e paziente maestro Alberto Manzi che insegnò a leggere e a scrivere a milioni di persone, bambini, ma anche anziani o adulti lavoratori che non avevano potuto frequentare aule di mattoni e insegnanti in carne ed ossa?

A ripensarci oggi è commovente lo spirito che animava gli ideatori ed i conduttori di quella trasmissione, come di altre.

C’era uno scopo sociale, chiaro, netto, definito e forte, che li muoveva. Difficile intravedere altri fini o interessi particolari, se non quello di portare un servizio concreto ai cittadini.

Quelli come me che hanno avuto la fortuna di sentire la voce calda, di vedere lo sguardo  bonario, sincero e onesto di Alberto Manzi, sanno cosa intendo dire.

Non c’è miglior giudice, spietato e nel contempo giusto, di un bambino innocente che sa cogliere in chi gli sta di fronte l’umanità sentita, l’affetto disinteressato e puro. Il bambino capisce se dall’altra parte c’è qualcuno che gli sta dando qualcosa senza chiedere nulla.

Bene, in quell’Italia, e precisamente il 3 febbraio 1957 (mio padre e mia madre erano sposati appena da un anno), andò in onda la prima puntata di un’altra mitica, indimenticabile, inarrivabile trasmissione della televisione italiana: CAROSELLO.

Da quella sera d’inverno, Carosello andrà in onda tutti i giorni dell’anno, tranne il Venerdì Santo e il 2 novembre, giorno dei morti.

Uniche eccezioni: la morte di papa Pio XII (9 – 11 ottobre 1958), la settimana d’agonia di Papa Giovanni XXIII (31 maggio – 6 giugno 1963), la sera che si seppe dall’America dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy (22 novembre 1963), ma anche per la morte del fratello Bob (5 giugno 1968); tre giorni di sospensione vennero proclamati per il lutto della strage di piazza Fontana nel dicembre 1969, infine un’interruzione ci fu il 9 febbraio 1971 in concomitanza con il collegamento via satellite per l’ammaraggio della navicella spaziale Apollo 14, la prima spedizione lunare seguita all’odissea dell’Apollo 13 che aveva tenuto col fiato sospeso il mondo intero. Ricordo a tal proposito che nella mia classe di quarta elementare, la mattina si diceva tutti insieme una preghiera per gli astronauti che tentavano di rientrare a Terra…

Le sospensioni di Carosello dunque erano rarissime ed intervenivano in corrispondenza di tragedie o eventi speciali che univano il popolo intero e di questo comune sentire la TV nazionale (in quel tempo istituzione autorevole e unanimemente riconosciuta) si faceva portavoce e testimone.

 

Carosello andava in onda alle 20,50, subito dopo il telegiornale della sera e durava dieci minuti.

Quando andarono in onda i primi quattro episodi gli abbonati alla televisione erano 3.666.161.

Il format di Carosello era definito rigorosamente e tutti dovevano attenersi a regole ben precise.

  • Ogni episodio durava due minuti e quindici secondi. La prima parte dell’episodio, quella spettacolare, non poteva assolutamente fare accenno al prodotto reclamizzato. La rèclame vera e propria si doveva concentrare nei trentacinque secondi finali: il cosiddetto codino.
  • Uno stesso prodotto poteva essere pubblicizzato solo ogni otto o nove giorni.
  • Il prodotto non poteva essere nominato più di cinque volte e solo durante il codino finale.
  • Nella stessa puntata di Carosello non potevano andare in onda due episodi che reclamizzassero due prodotti dello stesso settore merceologico.
  • Uno stesso episodio non poteva essere messo in onda due volte (ci fu in realtà qualche rara deroga a questa regola). Da ciò si capisce come la creatività degli ideatori fu stimolata e si comprende la conseguente ricchezza e varietà che ne scaturirono.

Da queste regole elencate emerge chiaro un aspetto sociologico che non ho timore ad accostare allo spirito già citato per quanto riguardava la trasmissione di Manzi.

E cioè l’intento esplicito di appagare il cittadino prima del consumatore (e tanto meno l’investitore) ai quali era lasciato solo e semplicemente il codino.

Quelle trasmissioni che sorgono imperiose dalle nebbie fertili degli anni cinquanta e sessanta mi sembra che portino con loro uno spirito costruttivo. Mi pare d’intravedere, ma la nostalgia potrebbe ingannarmi, la voglia di arricchire le menti, lo spirito e l’anima di coloro ai quali si rivolgeva, e cioè i cittadini.

Nella realizzazione degli episodi di Carosello per vent’anni si cimenteranno i migliori attori di cinema e di teatro, i più grandi registi, scrittori e rappresentanti della cultura italiana e mondiale, donando a chiunque, anche a coloro che mai avrebbero calcato un teatro di prosa, un varietà o un cinema, attimi sublimi di arte.

Ad elencare i protagonisti principali o secondari dei Caroselli sorge un senso di vertigine paragonando ciò al vuoto assoluto dei nostri attuali giorni costellati di squallidi reality show.

Gino Cervi, Arnoldo Foà, Renato Rascel, Lina Volonghi, Aldo Fabrizi, Giorgio Albertazzi, Paolo Panelli, Bice Valori, Tino Buazzelli, Francesco Mulè, Alberto Lionello, Totò, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Nicola Arigliano, Ernesto Calindri, Eduardo e Peppino de Filippo, Dario Fo, Macario, Nino Taranto, Raimondo Vianello, Carlo Giuffrè, Carlo D’Apporto, Alighiero Noschese, Ave Ninchi, Aroldo Tieri, il Quartetto Cetra, Raffaele Pisu, Oreste Lionello, Gino Bramieri, Tino Scotti, Jerry Lewis, Fernandel.

E ancora Luciano Emmer, Paolo e Vittorio Taviani, Mauro Bolognini, Giuseppe Patroni Griffi, Ermanno Olmi, Sergio Leone, Age e Scarpelli, Luigi Magni, Gillo Pontecorvo, Lina Wertmüller, Dino Risi, Pupi Avati, Ugo Gregoretti, Luigi Malerba.

Questo il Carosello degli “anni d’oro” che tutti noi ricordiamo con affetto e un pizzico di nostalgia.

Poi, verso la metà degli anni Settanta (ecco lo snodo), qualcosa in effetti cambia.

Facciamolo dire a Marcello Marchesi, grande comico, regista e sceneggiatore, che ha coniato alcuni degli slogan più famosi per Carosello.

«Poi cominciarono a fiorire le pipe sulle labbra dei copywriter,degli account, i quali erano le colonne delle agenzie di pubblicità che inaugurarono la linea americana: parlavano inglese e soltanto di mass-media, di storyboard, di jingles, di brainstorming, e di budget.

E così noi realizzatori di caroselli perdemmo di vista i vecchi padroni un po’ paternalisti, gli industriali che ormai giravano il mondo a bordo dei loro yacht, e ci trovammo di fronte ai pacchetti azionari coi quali non è molto facile parlare.

Insomma, cominciava il periodo dei persuasori occulti!

I persuasori decisero che il Carosello non doveva essere divertente perché il divertimento «di-vertiva», cioè distraeva l’attenzione del compratore dal prodotto.

E così cosa crearono? Crearono quei caroselli un pochettino a bagnomaria, così, insipidini, cioè crearono la cosiddetta atmosfera: ragazzi, cavalli, vecchi correvano tutti a rallentatore come se volassero. Non si sapeva bene in che direzione andassero, fino a che non si trovavano in mano il prodotto che poteva essere una bibita, un vibratore, un detersivo o un’enciclopedia. Io credo che quello sia stato l’inizio della fine di Carosello».

Prima, invece «… i contatti con questi industriali avvenivano nelle loro case a livello di invito a pranzo: “Venga a prendere il caffè da noi”.

Il Carosello veniva combinato così, un po’ alla familiare. La signora dell’industriale sceglieva la diva che era la più simpatica, ed era sempre quella che era meno simpatica al marito. Quella veniva sempre esclusa. Il figlio dell’industriale un po’ timido proponeva un suo slogan perché poi pensava di dedicarsi all’industria del padre nella maniera più comoda […]

Come reagirono i pubblicitari puri a questa invasione dei parapubblicitari così da battaglia come eravamo noi che scrivevamo i Caroselli?

A un certo momento cominciarono a mettere delle pulci nelle orecchie degli industriali e intanto scatenarono la lotta contro il cartone animato: dissero che il cartone animato piaceva ai bambini, ma che i bambini poi non hanno il potere d’acquisto, sono i genitori che gli danno i soldi, ma soprattutto dissero che il cartone animato non piaceva alle massaie. E da quel momento scoppiò “l’Epoca del Carosello a massaia”. Noi vedemmo un’infinità di donne che accarezzavano una lavatrice, annusavano il profumo della camicia bianca che odorava di pulito! Sempre le camicie, mai le mutande eh!? I detersivi si dedicano solo a una parte della nostra biancheria intima. E poi piano piano dal codino pubblicitario la donna salì nel reparto spettacolo. E così le donne accorsero a fare i caroselli! E quali tra le prime? Le donne più importanti: le cantanti. E fu tutto un succedersi di cantanti da Nilla Pizzi alla Vanoni e il Carosello fu cantato».

[Marcello Marchesi, nella trasmissione Carosello che passione, 1977].

 

Ecco spiegata, con grande realismo, la trasformazione che avvenne, quasi non ce ne accorgemmo, sotto i nostri occhi. I quasi due minuti di spettacolo (di arte), vera essenza di Carosello, vennero piano piano contaminati, via via conquistati da immagini suadenti ma vuote, fino a scomparire del tutto. Il “codino” ben presto si mangiò del tutto lo “spettacolo”.

Aveva vinto il messaggio per il consumatore/investitore, e aveva perso, definitivamente, il cittadino.

Ovvero quell’essere molle e un po’ antipatico, comodamente perso dopo cena nella sua apatia oziosa (che forse altro non era che il giusto riposo dopo un giorno di lavoro); quell’essere interessato solo al piacere personale, al suo diletto non immediatamente funzionale agli affari;

quell’individuo oltretutto sempre contorniato di bambini, per i quali, non va dimenticato, Carosello era diventato un vero e proprio metronomo che stabiliva i ritmi e i tempi della loro improduttiva giornata: «dopo Carosello tutti a nanna!».

I nuovi messaggi pubblicitari dovevano essere più diretti, secchi e precisi come un colpo di rasoio, non c’era più tempo e spazio per il divertimento, per l’evasione, per il godimento fine a sé stesso.

Il telespettatore era diventato solo un potenziale cliente da conquistare, un consumatore da invogliare e convincere. Tutto il resto venne classificato come superfluo ed inutilmente dispendioso.

Il rapporto 3/4 di spettacolo 1/4 di pubblicità era un lusso che il nascente “supercapitalismo” non poteva più permettersi.

Gli ultimi ascolti della trasmissione parlano di 19 milioni di italiani, fra cui 9 milioni di bambini. Malgrado ciò si decise lo stesso di chiudere.

A dare il triste annuncio della fine di Carosello, il 1° gennaio 1977, venne chiamata Raffaella Carrà:

«Ed eccoci nel 1977. Si è chiuso un ciclo. Vent’anni di Caroselli Stock ed è a nome della Stock che desidero ringraziare tutti coloro che hanno collaborato alla realizzazione dei suoi Caroselli e tutti voi che ci siete sempre stati amici e che speriamo ci seguirete per molti anni ancora… Auguri di Buon Anno e sereno lavoro. Dalla Stock».

Sereno lavoro… già, ecco la nuova parola chiave: lavoro.

Per il divertimento non c’era più spazio ormai…

Solo pochi anni prima mai ci si sarebbe rivolti ai telespettatori (in gran parte bambini) augurando loro buon lavoro… ma si sa, solo chi lavora guadagna quindi consuma e quindi investe…

Quel primo giorno del 1977 si era proprio chiuso un ciclo…

Gabriele Paradisi



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