Viaggio in Alaska e Canada: panorami che ti lasciano di “ghiaccio”


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Giunsi ad Anchorage la prima volta come scalo tecnico di un volo transcontinentale da Zurigo a Seul, in Corea. Alla prima occhiata, mi fece l’impressione di un posto di frontiera, innevato, con una moltitudine di piccoli aerei sul piazzale antistante l’aerostazione. Nell’atrio, il grande orso bianco impagliato con un cartello che spiegava anche il calibro del fucile usato per ucciderlo. Ci fermammo poco, solo il tempo di uno spuntino, ma ebbi il tempo di uscire sulla terrazza a respirare un poco d’aria fredda e a dare un’occhiata alla città, circondata da una corona di montagne bianche. Andai un’altra volta in volo da Anchorage fino a Whitehorse capitale dello Yukon, per vedere se esistevano possibilità di lavoro; ma più che altro ero interessato a vedere i posti in cui si era svolta la “corsa” all’oro, lungo le rive del fiume Porcupine.
Uno dei viaggi più belli della mia vita fu quando andai in Canada per la prima volta. Provenivo da un lungo viaggio in Oriente di quasi due mesi, mi trovavo in Nuova Zelanda quando venni raggiunto da una telefonata dall’ufficio che mi chiedeva di partire urgentemente perché mi avevano combinato appuntamenti a Los Angeles, New York e vicino a Quebec City in Canada.
Cercai di programmare il viaggio nel modo più diretto e veloce possibile, ma, solo per arrivare a New York impiegai una settimana, inclusa la sosta a Los Angeles. Da Auckland volai a Tahiti, dove mi fermai due giorni a prender fiato, poi da Tahiti a Honolulu e da lì a Los Angeles. Due giorni in California e poi a New York.
Nella grande Mela mi attendeva il nostro Agente, un giovane americano, nipote di un grande personaggio, che mi avrebbe accompagnato in macchina, una bella Mercedes 600 con tetto apribile.
Il cliente che dovevamo visitare abitava in un’area di confine con il Canada, vicino alle cascate del Niagara, che mi portò a visitare: uno spettacolo, erano ghiacciate!
Ci sbrigammo presto dal cliente ed entrammo in Canada, prima tappa: Toronto, la città più italiana d’America, ma forse ora non più. Ci fermammo a cena e poi prendemmo due stanze in un motel. Andammo in un ristorante italiano, ma non ci fecero entrare, eravamo senza giacca e cravatta! Era freddo e viaggiavamo con maglione e giaccone.
Riuscimmo a cenare in una pizzeria e partimmo diretti a est, a incrociare la famosa TCH ossia “Trans-Canadian Highway” o anche, in francese “Route Transcanadienne” la super strada che conduceva a Quebec City e oltre. Partimmo presto al mattino, il viaggio era molto lungo, ma la strada era larga e poco frequentata e invitava alla velocità, purtroppo il limite di 95 Km/h era tassativo. La macchina era dotata di un “Radar Detector”, strumento che segnala di essere inquadrati nei radar della polizia, che era permesso in molti Stati americani. Panorami incredibili, rettilinei di decine di chilometri che s’inoltravano in mezzo a boschi di conifere altissime; s’intravvedevano poche case ai bordi del bosco, tutte con parcheggiate nell’aia le motoslitte. Ogni tanto si scavalcava qualche fiumiciattolo dalle acque gelide e veloci. Mentre si procedeva, chiacchieravamo di lavoro, ma osservavamo attenti il panorama. Ci demmo il cambio alla guida, incrociavamo una macchina ogni quarto d’ora, nell’altra corsia; guidavo rilassato, ogni tanto mi fumavo una sigaretta. Mi venne voglia di accelerare un poco, non si vedeva nessuno in giro, davanti a noi la strada era deserta per chilometri e dietro pure; premetti leggermente il pedale dell’acceleratore, subito la potente macchina reagì, ma mi bloccai sulla velocità da crociera di 120 Km/h. Dopo pochi attimi s’attivò il “radar detector”, rallentai immediatamente, ci guardammo intorno, nessuno! Pensammo a qualche onda radio vagante, accelerai di nuovo ed ecco, nuovamente la macchina antiradar s’attivò. Rallentai nuovamente ma intorno, a vista d’occhio, non c’era anima viva. Ci stavamo innervosendo e fumavamo molto, provammo nuovamente ad andare più veloci e nuovamente sentimmo il “bip”.
Il fumo delle sigarette aveva riempito la macchina e decidemmo di aprire il tetto per farlo uscire, detto fatto aprimmo il tetto: basso, sopra di noi c’era un elicottero con la sigla “RCMP” ovvero Royal Canadian Mounted Police, le famose Giubbe Rosse! Ci stavano controllando!
Rinunciai a correre veloce e mi gustai il panorama; ero assolutamente felice di trovarmi lì, quand’ero ragazzo, un libro che contribuì moltissimo alla mia formazione fu “L’antica strada maestra” di J.O.Curwood, ambientato proprio in quell’area del Canada. Il riconoscere quei luoghi descritti nel libro mi riempiva il cuore di calore.
Arrivammo finalmente allo stabilimento del cliente, situato a Fort Laurier, non tanti chilometri da Quebec City.  Una simpatica riunione di lavoro con il cliente, seguita da un bel pasto, una conversazione che saltava dal francese all’americano e la promessa che dopo tre giorni, venuto a conoscenza della mia passione per la pesca, mi avrebbe portato a pescare un bel salmone.
Ripartimmo la sera stessa con l’impegno di ritrovarci dopo tre giorni e ci trasferimmo a Quebec City dove per i prossimi due giorni avremmo visitato dei clienti.
La maestosità dello “Chateau Frontenac” si notava da lontano, era ormai buio ma il castello era illuminato da fari e l’Agente mi disse che quello era il nostro albergo. Eravamo stanchi e, dopo una breve cenetta andammo a dormire. La mia camera, arredata con splendidi mobili antichi si affacciava sul piazzale con uno splendido panorama.
Il mattino dopo, mi alzai e guardai dalla finestra. Mi mancò il fiato: a una certa distanza si vedeva il celebre fiume San Lorenzo su cui navigavano lastre di ghiaccio, c’era molto vento e gli alberi si inchinavano come una squadra di calcio giapponese che salutava.
Dopo colazione uscimmo per il lavoro, andai all’estremità del piazzale, spirava un forte vento freddo tale che mi potevo inclinare in avanti di circa 35/40° senza cadere!
I giorni successivi sono senza storia: lavoro, pranzo, lavoro, cena, lavoro, notte.
Il terzo giorno lasciammo lo splendido castello di prima mattina per tornare a Fort Laurier, il cliente ci aspettava in fabbrica, mi vestii in modo adeguato e ci trasferimmo sul San Lorenzo dove un piccolo idrovolante ci attendeva per portarci a pescare.
Il volo durò quasi un’ora e ammarrammo su un piccolo lago, munito di pontile per agevolare lo sbarco dall’idrovolante. Ci aspettava un “ranger” che ci accompagnò con il fuoristrada su un affluente del fiume.
Mi diedero una canna con mosca e un paio di stivali a vita, il ranger stabilì la posizione: io che ero l’ospite venuto da lontano mi sarei piazzato per primo lungo il flusso dei salmoni, poi a 50 metri a monte l’Agente e 50 metri più a monte di lui c’era il cliente. Il ranger controllava….
Era emozionante trovarmi lì a pescare il famoso salmone e fu ancora più emozionante quando avvenne un fatto che mi lasciò come una statua. Avevo già letto di episodi simili, ma non avrei mai immaginato che capitasse anche a me. A una cinquantina di metri a valle della mia postazione nel fiume, uscì dalla foresta un grande orso, un “Grizzly” che s’inoltrò nel fiume degnandomi di un solo sguardo. Guardai a monte il ranger, che con la mano mi faceva segno di star fermo e tranquillo.
Avevo la lenza in bando e guardavo l’orso che, con una zampata magistrale pescò un bel salmone e se lo portò a riva e poi nel bosco, gettandomi uno sguardo che interpretai come: “Che imbranato che sei!”.
La mia lenza in bando incominciò a tirare e il mulinello a cantare, avevo il salmone! Mentre recuperavo, il ranger si avvicinò: non era tanto grande, era sui tre chili. Levato l’amo, lo ributtammo nel fiume, secondo la buona regola di quelle parti.
Prendemmo ognuno di noi il nostro pesce, ma l’eroe della giornata ero, io. Tornando a New York, con dispiacere, l’Agente parlava al telefono con l’ufficio e a ogni telefonata il grizzly diventava sempre più grande e più vicino a me, tanto che gli dissi:” Se continui così finirà che siamo anche andati in birreria insieme!”.
Ritornai ancora in Canada, come pure in Alaska, ma le prime impressioni sono quelle che tracciano il ricordo nella mente e nel cuore.

Sandro Emanuelli



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