Lillo, lo stambecco che si fece umano


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La notizia, straordinaria per gli etologi, è che lo stambecco Lillo è vissuto quasi ventidue anni. Un record di longevità. Gli ultimi tre, circostanza anche più rara, li ha trascorsi tra gli uomini, nutrendosi di tutto ciò che la comunità locale gli offriva: pane, brioches, spaghetti, zuppe, cavoli. Oltre a spezzatino, polenta, formaggio. Con uno spazio tiepido e protetto tutto suo, nel retro di una panetteria. E’ accaduto a Dégioz, capoluogo della valdostana Valsavarenche, nel parco nazionale del Gran Paradiso.

stambeccoQuesto il dato di cronaca. Ma la vicenda si sviluppa e si fa mito in un bel libro di Ariberto Segàla, « La scelta di Lillo – Lo stambecco che volle vivere tre gli uomini» , Arca edizioni. Segàla è scrittore, giornalista e fotoreporter: viene da lontano, dallo storico settimanale Epoca edito da Mondadori dal 1950 al 1997, dove ha spesso pubblicato grandi reportage sulla  flora e la fauna di tutti i continenti. Tra distese verdi e scenari orridi, con rare immagini di orsi, stambecchi, marmotte, e perfino un esemplare unico di camoscio bianco albino. Tutti conoscenti suoi, perché Segàla ama i percorsi impervi, i grandi silenzi e il dialogo interiore con la natura. Raccoglie testimonianze di contadini, guide alpine e guardiani di parchi, ma soprattutto comunica con alberi, piante e animali: e da questa fuga dalla civiltà trae la sua pace.

Nel raccontare Lillo, lo scrittore ripercorre la storia del suo eroe – un capobranco fiero, sensibile e intelligente –  identificandosi con perfetta empatia nell’ animale, che assume così un profilo umanizzato e quasi antroporfo. Non è (solo) un artificio letterario: comportamenti, stati d’animo e meccanismi emotivi vengono osservati da vicino e ricostruiti per il lettore grazie a un’ immedesimazione realistica, ricca di immagini potenti e vivide. «I ghiacciai scintillanti della giovinezza. I pascoli inondati dal sole, le resine dei vecchi larici, i canaloni dove nascono le nebbie d’autunno». Qui i momenti crepuscolari –  «Mi accompagnava un soffio di selvatica eternità» – si alternano a forti visioni panoramiche: «Ci appartengono l’arcobaleno, i fiori, le rocce, i prati, la neve, l’ombra, le montagne». Un lirismo delicato, non bucolico né gratuito, ma oggettivo e concreto, ben aderente a una realtà naturale spesso aspra e ingrata. Non mancano movimento e azione: Lillo si scontra con i rivali, si accoppia felice,  affronta  abissi e dirupi pietrosi, in ansia per sé e  i compagni del branco. Contempla il plenilunio, interroga il vecchissimo larice, ascolta la voce dei monti. La vita, la morte, le stagioni: forse una metafora del ciclo umano. Lillo soffre, rischia, sente tutto. Crescerà l’erba? Troveranno il pascolo?

Poi, la svolta. Lillo, ormai anziano, capta le voci e i suoni degli uomini, e ne è attratto. Così, a testa alta, cala dai ghiacciai, attraverso boschi di larici, abeti, aceri, frassini. In discesa si avvia al villaggio, dove è accolto e ospitato con affetto. Per una vecchiaia confortevole rinuncia alla sua orgogliosa identità originaria. Fuga dalle responsabilità? Abdicazione? Per gli studiosi si tratta di un comportamento «opportunistico», ma nel senso più sano. Ovvero un’opzione pragmatica, dettata dalla consapevolezza dell’età e da un’astuzia saggia e vitale. Nel villaggio impara a interpretare il linguaggio umano, simpatizza e a volte litiga con turisti e valligiani. Ma nel tempo le forze cedono ancora, e le visioni si appannano. Finché una notte crede di vedere il corteo dei compagni già trapassati – Belzebù, Biancone, Negus, Sultano e tutti gli altri – volteggiare attorno alla luna. Presto forse passeranno da lui per raccoglierlo e condurlo con loro: su, su, in alto, molto più in alto dei ghiacciai. Che bel libro.

Gian Luca Caffarena

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