I Buddenbrook della Superba


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La parabola discendente di una classe sociale raccontata attraverso le vicende di una famiglia. Se i Buddenbrook fossero stati genovesi e fossero vissuti nella seconda metà del ventesimo secolo, forse si sarebbero chiamati Olivari e sarebbero stati protagonisti de “Il velo” di Gian Luca Caffarena (Melangolo): per la brevità temporale dell’azione – una quarantina d’anni – qualcosa meno di una saga; per il suo iconico significato, qualcosa più di un paradigma. Quello del declino della ricca borghesia industriale, una caduta progressiva e inesorabile che si consuma sul terreno economico, con la graduale erosione di competitività e profitto, ma anche su quello dei valori e delle relazioni, sullo sfondo di una politica che impone i suoi compromessi con l’affermarsi di nuovi soggetti sociali e nuovi personaggi e di una società che vede cambiare il costume e la morale.

Di questo processo gli Olivari sono il simbolo, incarnando le diverse personalità del mondo borghese: il capitano d’industria, l’erede la cui vita si incanala su binari predeterminati facendone il solido continuatore dell’impresa e dell’etica familiare, il figlio cadetto inquieto e fragile che smania per la sua condizione di inferiorità, un genero corrotto e legato a conventicole politiche sordide e potenti, la figlia colta e capace di aperture mentali che a un certo punto attua una ribellione sui generis a certi rigori ipocriti e bacchettoni, la nuora che di questi valori si erge a custode, l’altra nuora civettuola e arrivista, e poi il nipote sessantottino che giocherà un ruolo decisivo nella decadente impresa di famiglia, il cugino che per la sua scandalosa stravaganza sarà a lungo la pecora nera della casata, la giovane moglie orfana capace di trasformarsi in una compita signora iniziata alle arti della diplomazia familiare e salottiera e dell’amministrazione domestica.

Ci sono almeno due livelli di lettura nel romanzo di Caffarena. Quello del racconto capace di evocare ambienti, situazioni, atmosfere, dipingendo – con un realismo la cui efficacia affonda le radici nell’ottima conoscenza dell’autore, genovese trapiantato a Torino – locali, edifici, strade (bellissima e pittorica l’impressionistica descrizione dei carruggi di Genova vecchia), vacanze, amori, dialoghi, arredi, stoviglie, situazioni, liturgie dell’alta società: un racconto condotto con un vocabolario ricco, colto e ricercato, il lessico del decoro e della ricchezza, nel quale la dovizia di aggettivi non è mai superflua ma funzionale a una descrizione viva e colorita, così presente da illudere di assistere personalmente alle vicende narrate.

Il secondo livello di lettura è una metafora che accompagna il lettore fin dall’inizio ma che si rivela soltanto alla fine del libro, con un coup de théatre inaspettato. Una sorpresa che, attraverso il disvelamento del volto insospettato di uno dei protagonisti, fa luce all’improvviso sulla doppiezza di quella borghesia, su vizi privati e pubbliche virtù, peccati e devozioni, fedeltà e tradimento, innocenza e delitto. Ed è sullo sfondo di un’Italia attraversata da stragi e terrorismo, crisi economiche, conquiste sociali, che si consuma la parabola degli Olivari, la cui storia familiare viene segnata anche da due morti misteriose. E alla fine, mentre l’imprenditore decaduto celebra l’eredità rimastagli tra le mani (“Di borghese mi restano una certa cultura, qualche idea di bellezza, un discreto conto in banca, e questa cravatta di seta. Nient’altro”), è un nobile, il Marchese Donghi, a distillare forse la morale profonda de “Il velo”: “Evadete il fisco, esportate capitali, favorite il lavoro nero, diciamo pure che abbellite un po’ i bilanci: ma siete e rimarrete la spina dorsale della società”.

Claudio Mercandino



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