Il 25 gennaio del 1997, andò in onda su Rai 2 la prima puntata di Anima mia [1], un programma ideato e condotto da Fabio Fazio, coadiuvato da Claudio Baglioni, Sabina Ciuffini, Natalia Estrada e Orietta Berti. Il programma, previsto inizialmente in quattro puntate, ebbe un successo tale che gli autori dovettero realizzarne altre due. La formula era semplice quanto intrigante. Presi in esame gli anni dal 1968 al 1983, il programma, come recita Wikipedia, era «centrato sull’immaginario collettivo degli anni settanta, cercava di ricordare i vari miti e le mode di quegli anni».
«Anima mia è senza dubbio l’unica innovazione proposta finora dalla nuova Rai nell’ambito del varietà televisivo, anche se in video il nuovo è sempre un calco dell’antico; in questo caso, degli anni ’70. Fabio Fazio non ripropone brutalmente l’immaginario di quel periodo, ma tenta una lettura, ora affettuosa ora ironica, del materiale mediatico che ancora galleggia nel flusso del ricordo. L’intenzione del programma è molto affascinante e la riproposta scapestrata ha questo di bello: che lo spettatore crede che la tv italiana degli anni ’70 fosse ancora piena di mostri sacri ma incoscienti di essere, come sempre accade, gli ultimi rappresentanti di una specie leggendaria» (Aldo Grasso, Bravi Fazio e Baglioni ma troppi ospiti, Corriere della Sera, 26 gennaio 1997).
Le parole, sempre azzeccate di Grasso, colgono un concetto che mi è già capitato di ribadire in altre occasioni. Quella tv degli anni ’60 e ’70 ha segnato indelebilmente la nostra fantasia perché ci portava letteralmente a casa nuovi “veri” amici e “parenti” discreti, tutt’altro che serpenti: ho già detto dello “zio” Bernacca, dei compagnoni Bud e Terence, e di decine di altri ancora avrò modo di parlare. Personaggi che non dimenticheremo più. Scolpiti per sempre nel profondo della nostra sensibilità. Mia e della gran parte di tutti coloro i quali in quel lasso di tempo passarono dall’infanzia all’età adulta, attraverso l’eccitante turbolenza dell’adolescenza.
Domanda a bruciapelo: anche i nostri figli fra venti o trent’anni potranno gustarsi una trasmissione analoga ad Anima mia? O meglio, potranno ritrovarsi con altri coetanei e rivivere con tenerezza condivisa certi ricordi televisivi della loro infanzia e adolescenza?
Temo proprio di no, ma non per il solito refrain della mitizzazione di un tempo andato, quando si stava meglio e dove tutto era perfetto. Figurarsi, quel decennio è stato anche per certi versi terribile, ma io credo che sarà impossibile per i nostri figli rivivere le nostre stesse emozioni (loro ne avranno sicuramente di altre in altra forma che non so), perché difficilmente potranno ritrovarsi e convergere su qualche solido punto fermo, se non proprio condiviso da tutti, almeno da tutti conosciuto. E ciò resta vero anche se prendiamo in esame, com’è logico che debba essere, altri media oltre ai tradizionali cinema e tv, aggiungendo che so, anche internet, i video game, Youtube o tutte le altre moderne diavolerie d’intrattenimento che volete.
Se i nostri figli non potranno godere come noi di una memoria collettiva, ciò non dipenderà ovviamente dalla carenza di «leggendari mostri sacri» ─ oggi come allora ci sono personaggi, attori, presentatori, intrattenitori validissimi ─ ma paradossalmente sarà proprio in virtù dell’enorme offerta oggi disponibile. Infatti, contrariamente a quanto si può pensare di primo acchito, l’eccesso di proposte (televisive, cinematografiche, internettiane, etc.) appiattisce, omogenizza. Non fa altro che aumentare… il disordine complessivo. Di conseguenza l’informazione si riduce e cioè, in altre parole, s’indebolisce fino a svanire il controllo su un determinato sistema…
Hmmm… Ammetto di aver introdotto nell’ultima frase una serie di concetti tutt’altro che semplici.
Vediamo di chiarire meglio quanto ho appena affermato.
In fisica esiste una grandezza denominata entropia. Questa grandezza aumenta ogni volta che avviene una trasformazione irreversibile [2]. Una trasformazione irreversibile porta da stati più ordinati (quindi meno probabili) a stati più disordinati (cioè più probabili). In altre parole l’entropia è una misura del disordine che regna in un sistema. Si può infine dimostrare che maggiore è il disordine minore è l’informazione disponibile.
Facciamo un esempio. Se io dovessi indovinare il nome di una persona, le possibilità di scelta sono tantissime in quanto non ho alcuna informazione, suggerimento o indizio che mi permetta di circoscrivere la scelta. Supponiamo invece di sapere che la persona di cui devo indovinare il nome sia una donna. A questo punto è aumentata l’informazione a mia disposizione e contemporaneamente sono diminuite le possibilità di scelta.
Dunque se disordine (quindi entropia) e informazione divergono, è facile capire quanto affermò il fisico francese Léon Brillouin (1889 – 1969) con la sintesi sublime: «L’entropia misura la mancanza di informazione sullo stato di un sistema».
Possiamo capirlo meglio ancora con un altro esempio. Se abbiamo un recipiente pieno d’acqua e vi versiamo una sostanza colorata, inizialmente abbiamo un alto contenuto di informazione in quanto la non uniforme distribuzione del colore, richiede una descrizione del sistema più minuziosa. Per esempio: «nella zona superiore del nostro recipiente pieno d’acqua c’è una macchia di colore rosso che si sta lentamente espandendo». Col passare del tempo il colore si diffonde uniformemente in tutto il sistema, l’entropia aumenta (le molecole di colore realizzano un assetto più disordinato), ma il contenuto in informazione diminuisce. Infatti, al termine del processo, per descrivere il sistema sono sufficienti solo poche parole: «tutta l’acqua contenuta nel recipiente è di colore rosa tenue».
A questo punto, se non vi fuma ancora il cervello, avrete capito dove voglio andare a parare.
La tv degli anni ’70 era il recipiente d’acqua dove una o più gocce di colore erano state appena fatte colare. Le aree colorate erano nette, distinguibili e per descrivere l’intero sistema era necessario un notevole quantitativo di informazione e quella ricchezza si è depositata stabilmente nelle nostre menti. La tv di oggi è viceversa un plasma disordinato ma uniforme. Non c’è una sola nota di colore che spicchi sulle altre.
Vostro figlio potrà prediligere un canale tematico di Sky, un personaggio in particolare, una precisa serie di telefilm, ma difficilmente questi suoi gusti aderiranno perfettamente con quelli di altri suoi coetanei, data la vastità dell’offerta disponibile. Insomma io credo che questa tv, o per meglio dire, questi media, non saranno in grado di produrre una “memoria collettiva” per le attuali generazioni di bambini e di ragazzi, cosa che al contrario l’apparentemente più povera tv degli anni ’60 e ’70 è riuscita a fare con noi e per noi.
Non sto dicendo che ciò sia un male. Dico semplicemente che quando questi nostri ragazzi avranno 40, 50 anni, se proveranno un’emozione rivedendo uno spezzone di tv della loro infanzia, ciò sarà molto probabilmente un’emozione intima, molto personale e faranno certamente fatica a trasmetterla e a riviverla con gioia condivisa insieme al coevo che gli siede accanto sul divano.
Tutt’altro spirito quello che ispirò Fazio e Baglioni nel realizzare Anima mia: «Tutto nacque per gioco, per l’appunto, in un ristorante di Roma in cui pranzai con Claudio. Il gioco consisteva nel ricordare i nomi degli otto figli di Tom Bradford, dell’omonima famiglia che abitava uno dei più celebri telefilm degli anni Settanta, intitolato Otto bastano, nel suo primo anno di uscita, che tenderei collocare nel 1977 [3]. Esattamente come per i nomi dei sette nani, solo pochissimi, i più ardimentosi, riescono nell’impresa. Né io né Claudio ci riuscimmo, né ci riuscirono i nostri vicini di tavolo al ristorante, che tuttavia si appassionarono al “gioco”, facendoci intuire che poteva funzionare. A questo punto lascio al lettore il piacere di cimentarsi nella prova. Un aiutino? Peggio per voi: Mary, David, Tommy, Susan, Nicholas, Elizabeth, Nancy e… Buon divertimento [4]» [5].
Vorrei riportare come esempio un episodio che ritengo possa rendere meglio l’idea di quanto ho inteso dire.
Quando il 19 luglio 1966 a Middlesbourgh il meccanico dentista coreano Pak Doo Ik, al quarantunesimo minuto del primo tempo, con una rasoiata dal limite dell’area superò Enrico Albertosi ed eliminò la nazionale italiana dai mondiali inglesi, non si trattò di una semplice sconfitta in una partita di calcio. Quella fu la Sconfitta! La madre di tutte la sconfitte. La sconfitta per antonomasia. Il naturale aggiornamento nel lessico nazionale di quello che aveva rappresentato per decenni la parola “Caporetto”.
Per comprendere quanto pesò quell’episodio nella memoria degli italiani, basti dire che, nonostante avessi solo sette anni, ho un ricordo netto di quella serata sciagurata. Mi è rimasto dentro un senso di oppressione, il clima cupo di quelle due ore di sofferenza. I miei familiari non furono mai dei tifosi accaniti. Seguivano il calcio con molta nonchalance, contenti delle vittorie del Bologna o della nazionale, riservavano alle sconfitte sportive il ruolo che dovrebbe spettare loro. Ma quella sera anche i miei, con tutta l’Italia, si sentirono sulla pelle quella debacle e coi loro sguardi, con la loro agitazione, mi fecero percepire il “dramma” che si stava consumando. Ricordo che volevo finisse quello strazio e volevo uscire in cortile a respirare, a giocare per stornare quel senso di angoscia, non rendendomi conto che era ormai calata la notte.
La tv quella sera, aveva portato nelle case di tutti gli italiani un qualcosa che sarebbe entrato nella memoria collettiva della nazione e ci sarebbe rimasto per decenni. Quando si dice Corea ancora oggi milioni di italiani sanno cosa significa. Una metafora che è entrata di diritto nella nostra storia oltre che nei modi di dire della gente.
E adesso pensate: quante “partite del secolo”, così ci sono state annunciate sui giornali o per radio e in tv, si sono giocate negli ultimi dieci anni? Quante di queste saranno ricordate dai nostri figli e lasceranno un segno nella memoria collettiva, come fu in grado di fare Italia – Corea del 1966? La bulimia calcistica di questi nostri giorni – puro disordine, entropia crescente, decine di partite trasmesse ad ogni ora e in ogni periodo dell’anno, mercato calcistico perenne, e via discorrendo – ha reso l’acqua del recipiente di un colore rosa… uniforme e… pallido.
Sulla falsariga della partita Italia – Corea potrei fare mille altri esempi. Pensate
solo, per restare in ambito calcistico, ma il discorso ovviamente potremmo estenderlo a molte altre situazioni, al mitico incontro Italia – Germania 4 a 3 del 17 giugno 1970. Addirittura a ricordo di quell’evento è stata posta una targa nello stadio Azteca di Città del Messico, tanto quella semifinale dei campionati del mondo aveva suggestionato non solo il popolo italiano. Ecco appunto, i media dell’epoca erano in grado di fissare delle lapidi che si scolpivano definitivamente nelle menti e nella carne di ognuno di noi.
Così Fazio e Baglioni durante Anima mia non fecero altro che tirare fuori dal cappello via via eventi che immediatamente evocavano un ricordo più o meno piacevole, più o meno tenero, in tutti quelli della mia generazione: un titolo, una trasmissione, un personaggio. Era come se si riaprissero magicamente dei cassettini nascosti che immediatamente facevano scattare in ognuno di noi l’orgoglio di dire: io c’ero; sì, sì lo ricordo bene; l’ho visto… che bello che era…
Già, forse non è molto per una generazione che a vent’anni voleva cambiare il mondo e arrivati sulla cinquantina gode anche, o forse solo, di questi piccoli piaceri. Ma così è. Se vi pare.
Per chiudere vorrei citare ancora Fazio:
«L’idea [di Anima mia] era di raccontare alla rinfusa i nostri anni Settanta: gli anni della prima generazione televisiva, che dalla televisione traeva dunque la propria memoria collettiva. Non più i cortili assolati dove giocare ma un’unica piazza per tutti e per molto tempo in bianco e nero, senza sole: la TV. Quella dei ragazzi, quella dei varietà del sabato sera, quella dei telefilm americani e delle sigle che ti perseguiteranno e che non ti lasceranno per il resto della vita. Come in un vecchio baule dei giochi dove si va a rovistare e dove tutto, attraverso l’incanto della memoria, alimenta quel sentimento che siamo soliti definire nostalgia, così noi abbiamo proceduto per costruire le puntate. Del resto, ogni generazione ha i ricordi e la nostalgia che si merita» [6].
Che ricordi, che nostalgia si meriteranno i nostri figli?
Gabriele Paradisi
Note
[1] Il titolo del programma è ispirato dall’omonima canzone del 1974 dei Cugini di Campagna.
[2] «Consideriamo un “sistema” e definiamo “ambiente circostante” tutto ciò che lo circonda e interagisce direttamente con esso. Definiamo altresì “resto dell’universo” tutti quei dispositivi che possono interagire col “sistema”. Supponiamo si verifichi una trasformazione tale per cui un “sistema” passi da uno stato iniziale ad uno stato finale. Questa trasformazione avrà ovviamente delle ripercussioni sull’ “ambiente circostante” in quanto come si è detto esso interagisce direttamente col “sistema”. Ora se possiamo riportare il “sistema” dallo stato finale allo stato iniziale e con esso l’ “ambiente circostante” senza produrre alcun cambiamento nel “resto dell’universo”, la trasformazione si definirà “reversibile”. Ogni altra trasformazione che lasci traccia sul “resto dell’universo” si definirà “irreversibile”».
[3] La serie televisiva Otto bastano [La famiglia Badford] venne prodotta negli Stati Uniti tra il 1977 e il 1981, per un totale di 112 episodi distribuiti su cinque stagioni. In Italia venne trasmessa a partire dal 16 agosto 1978 alle 20.40 sulla rete 1 della Rai.
[4] L’età degli otto figli di Tom Bradford, variava dagli 8 ai 23 anni. Il nome mancante è quello di Jenny (in realtà Joanie).
[5] Fabio Fazio, Anima mia, in Annisettanta il decennio lungo del secolo breve, Skira 2007, catalogo della mostra tenutasi alla Triennale di Milano dal 27 ottobre 2007 al 30 marzo 2008, a cura di Marco Belpoliti, Gianni Canova e Stefano Chiodi.
[6] Fabio Fazio, Anima mia, cit.









