Esiste un libro che è stato il Capostipite di tutti i nostri libri letti. Serve solo rifletterci un attimo e troveremo il titolo. Sarà “quel libro” il padre dei nostri libri letti: il genitore letterario che ci siamo scelti (perché si è fatto preferire) e lo abbiamo messo, inconsapevoli, in fondo al baule controverso e stipato della nostra mente. Ora che sappiamo della sua esistenza, non resta che “scovarlo” viaggiando nel tempo. Un viaggio più o meno lungo: ogni lettore ha le sue tempistiche, i suoi mezzi di trasporto preferiti con il suo personale punto di partenza (e il suo insegnante “guida” se è fortunato). Ricordo l’emozione del “Cuore” di De Amicis, l’originalità, l’ironia e il significato del “Don Chisciotte della Mancia” di Cervantes, la magia della letteratura araba con le fiabe de “Le mille e una notte”; l’umorismo dei “Tre uomini in barca (per tacere del cane) ” di Jerome K. Jerome. Ricordo i libroni di Antologia dove si trovava un po’ di tutto e che rappresentavano l’ideale per appassionarsi alla lettura, magari grazie anche a un professore dedito a “stuzzicarla” quella passione. Ricordo anche i fumetti, che costituivano la lettura ricreativa e ambita di quei periodi di fanciullezza; il massimo della divagazione allora concessa grazie a dei disegni così curati e alle copertine a colori così ammiccanti. Arrivando agli anni della lettura “libera” sono molti i libri che mi hanno appassionato. Da Hesse a Hemingway, da Silone a Buzzati, da Dumas a Proust, da Dostoevskij a Tolstòj, da Isabel Allende a Gabriel García Marquez e…narrando ancora, non mi fermerei forse più. Giunto alla fine di questo viaggio immaginifico ma realistico, spassoso ma nostalgico, umorale ma riflessivo, svelo il mistero: il genitore letterario, il padre di tutti i (miei) libri è “Cent’anni di solitudine” di Gabriel García Marquez (Premio Nobel 1982). Ho letto questo libro nei primi anni ’80 (e intorno ai vent’anni di età); mi sembrava un’ottima lettura ma senza immaginarne la reale grandezza. L’ho ripreso molto più tardi e dopo aver letto vari libri dello stesso autore. Nel frattempo l’anima del lettore si era evoluta: aveva selezionato, compreso e instaurato un rapporto più intimista con i libri ed era pronta per immergersi nella loro ricchezza più profonda ed efficace. “Cent’anni di solitudine” è stato il libro primo della nuova consapevolezza dell’onnivoro lettore che non si da tregua e ambisce a nuove scoperte. Come non rimanere incantati di fronte (e dentro) al “realismo magico” dello scrittore sudamericano (che è anche la massima espressione di quel genere)? Quegli elementi di magia mescolati al reale, quei personaggi che si sovrappongono e vanno e vengono nel mito che castiga e disorienta la realtà, e quello stile fiabesco e crudo messo su più piani di scrittura così unico e inarrivabile! Un’opera complessa e al tempo stesso semplice: perché il paese di Macondo descritto potrebbe essere il nostro e anche la famiglia Buendía potrebbe essere la nostra e, se è vero che la storia si ripete, non lo fa forse attraverso la sua tragicità semplice e disarmante? Merita l’appellativo di (mio) “Patriarca” questo libro, perché è il capo delle famiglie dei libri grazie al suo carisma e all’autorità conquistata sulle proprie pagine. La scrittrice Natalia Ginzburg scriveva: “Leggerlo è stato per me come udire uno squillo di tromba che mi svegliasse dal sonno”.
Per un Patriarca non esiste complimento migliore.
Danilo Stefani








