Epoche. Nebbia in Val Padana


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Una volta i contadini sapevano leggere il tempo, bastava uno sguardo al cielo. Poi arrivò l’urbanizzazione (spesso selvaggia) degli anni ’50 e ’60. E dalle finestre dei condomini, si sa, si possono intravedere solo spicchi di cielo e quasi sempre di colore non azzurro brillante, ma bianco lattiginoso. Addirittura di notte, in città, pare che la maggior parte delle stelle sia stata spenta. Giorgio Gaber seppe cogliere quel sentimento di smarrito amore-odio che colse migliaia di famiglie quegli anni, quando, lasciato il loro rassicurante paesello, si ritrovarono sperdute nelle periferie (spesso anonime) di immensi centri urbani sconosciuti e tentacolari.

Perché comunque, bisogna ammetterlo, la città in fondo è “bella”, “grande”, “viva”, “allegra”, «piena di strade e di negozi e di vetrine piene di luce con tanta gente che lavora con tanta gente che produce. Con le réclames sempre più grandi coi magazzini le scale mobili coi grattacieli sempre più alti e tante macchine sempre di più, sempre di più, sempre di più…». «Vieni, vieni in città che stai a fare in campagna? Se tu vuoi farti una vita devi venire in città» [1].

Ma come dicevamo, scrutare le nuvole, sentire l’odore del vento, non è facile in un luogo pervaso da quel fumo-nebbia che gli inglesi hanno felicemente definito, con l’ennesimo portmanteau, “smog” (smoke + fog). Il vecchio contadino urbanizzato, anche se non doveva più andare nel campo a seminare, si era subito attrezzato e nella mensola più alta della sua nuova casa, che andava piano piano riempendosi di utili elettrodomestici («lui per lei vuole Naonis: un grill per una ottima cucina»… la lavatrice Castor «Di buon peso. Forte forte forte»), faceva bella mostra un igrometro a capello, ovvero una casetta segnatempo in legno.

Ma la televisione di Stato pensò a qualcosa di più tecnologico. Il 6 gennaio 1968, prima del Telegiornale delle 20.30 sul 1° canale Rai, fece capolino non la donnina di legno con l’ombrello ma un ometto sorridente. Era nata una rubrica a suo modo esoterica ed ambiziosa: Il tempo in Italia (che diventerà poi Che tempo fa?), e quell’omino sorridente e rassicurante si chiamava Edmondo Bernacca.

L’Italia tutti sanno che è lunga e stretta, che dalle Alpi a Lampedusa cambiano cibi, popoli e dialetti. Figurarsi il clima. Per riuscire nell’intento di risultare credibili e diventare un punto di riferimento per tutti, ex contadini ed impiegati, occorreva autorevolezza gradevole e bonaria determinazione. Il tutto concentrato in un austero ufficiale dell’Aeronautica (il corpo militare che gestisce da sempre il servizio meteorologico nazionale). Un’impresa dunque non facile, anzi, apparentemente impossibile. Invece Edmondo Bernacca (1914-1993) fu tutto ciò. Colonnello e galantuomo insieme. Una persona che con signorilità riusciva a conciliare i tecnicismi della materia che cercava di divulgare, con la semplicità e la pazienza per arrivare a tutti i telespettatori, nessuno escluso. Così la rubrica, tre minuti in tutto, divenne ben presto uno spettacolino imperdibile [2]. Bernacca sapeva che il suo compito non sarebbe stato facile e che avrebbe dovuto superare enormi difficoltà per entrare nel cuore della gente, ma seppe tener duro.

Il 1968 peraltro non fu un anno facile dal punto di vista meteorologico. La prima settimana di maggio infatti, un’ondata di caldo eccezionale colpì il nostro Paese. Bernacca rassicurò dicendo che le temperature sarebbero calate e ben presto sarebbe arrivata anche la pioggia. Maggio insomma, a parte quei primi giorni, non sarebbe stato un mese eccessivamente caldo. Ma dalla seconda decade di giugno – egli affermò – e fino alla prima di ottobre il caldo sarebbe stato torrido. Un’estate molto lunga, dunque, caratterizzata da quattro mesi di tempo bello. Affermazioni impegnative… che si rivelarono, ahimè, del tutto errate. I mesi estivi di quel 1968 furono infatti un vero disastro.

I giornali, impietosi, non risparmiarono facili ironie:

« [Edmondo Bernacca] È il meteorologo del video, e lo descrivono come un amabile signore, un bravo padre di famiglia, dalle raccolte abitudini, a cui gli studi, la sorte e la Rai hanno affidato l’arduo compito di spiegare agli italiani che tempo farà. In questo momento il suo nome cade con inaudita frequenza nei discorsi della gente. Diciamo la verità: è un po’ discusso. […] A suo parere, luglio e agosto sarebbero stati senz’altro «positivi»; anzi, questo mese che stiamo vivendo al riparo di cappotti, ombrelli ed impermeabili avrebbe dovuto addirittura distinguersi per le giornate radiose. Non è andata esattamente così. I gelatai stavano per trasformarsi, in alcune località, in venditori di caldarroste, i rifornimenti di nafta erano diventati frenetici, le spregiudicate ragazze, osservando le vetrine delle «boutiques» balneari, rabbrividivano davanti ai bikini esposti, e pensavano con struggente nostalgia al castorino riposto tra la naftalina. Ritengo che d’ora in poi il colonnello Bernacca sarà considerato poeticamente «il mago della pioggia», stante l’accentuata «attività temporalesca» che si è esercitata, in questa travagliata stagione, sulla penisola. Neppure l’alto ufficiale è, come dice la Bibbia «profeta e figlio di profeti», e nessuno si aspetta previsioni assolute, ma quelle sue non riscontrate induzioni sul clima, pure suffragate dall’ausilio della tecnica, inducono a qualche scettica riflessione sui poteri della scienza. Andrà a finire, probabilmente, che l’incolto pubblico, in futuro, per regolarsi sulla opportunità o no di andare a fare un «week-end» o una scampagnata sui monti o al mare, invece di dare ascolto al colonnello e alla graziosa signora Orsomando, presterà attenzione ai sensibili piedi del nonno, o alle artriti della zia, ai voli bassi delle rondini, o alla direzione del libeccio, o a certi barometri di moda una volta: quegli ometti di legno, che, nelle tabaccherie di campagna o nelle vecchie canoniche, uscivano dalla casetta quando stava per spuntare il sole, e si ritiravano al comparire minaccioso delle nubi» (Enzo Biagi, La Stampa, 11 agosto 1968).

«Il colonnello Bernacca è uno degli uomini più noti d’Italia: ogni sera alla tv, per il tramite di una suadente voce femminile, ci informa sul tempo che farà domani. Curioso destino il suo, e raro. È diventato famoso per alcuni piccoli infortuni professionali rimasti memorabili. Chi fa, rischia di sbagliare; figuriamoci chi deve prevedere il futuro. Ma chi può prendersela con lui se gli strumenti gli consentono previsioni valide tutt’al più per 12 ore, mentre la passione del mestiere lo spinge a profezie sull’andamento di una intera stagione? O se la sua cortesia gli ha spesso impedito di deludere le aspettative della gente, sul piede di partenza per le ferie o il «week-end»? Così il meteorologo-gentiluomo ci ha promesso una magnifica estate, e tutti l’abbiamo vista. Poi un agosto bellissimo, e infatti è piovuto sempre. È ricomparso sul video col suo smagliante sorriso e ha detto. «Settembre vi ricompenserà». E settembre si stiracchia tra nubi e pioggerelle, la temperatura si fa via via più fresca, rotoliamo nelle nebbie dell’autunno» (Bernacca di sera, bel tempo si spera, La Stampa, 14 settembre 1968).

Nonostante queste “temporalesche  previsioni”, la fama di Bernacca crebbe sempre più col passare del tempo. Andato in pensione nel 1979, venne richiamato dalla Rai nel 1982, quando ormai le previsioni meteo erano un appuntamento fisso di ogni rete televisiva e altri meno carismatici colonnelli o signorine ne avevano pallidamente preso il posto.

D’altronde Bernacca, oltre alle citate doti personali, aveva avuto la fortuna di far parte di quella televisione pionieristica che era riuscita ad allargare le famiglie italiane, inserendovi con eleganza e discrezione nuovi componenti, accolti sempre con simpatia e calore da tutti gli altri membri di diritto. Lo “zio” Bernacca fu uno di questi.

Difficile capire questo fenomeno per chi oggi è bombardato da un numero imprecisato di media e di trasmissioni d’ogni genere, da una varietà e da una ricchezza che paradossalmente omogeneizzano e livellano ogni cosa. Ma in quegli anni poteva anche accadere (è realmente successo ad un amico mio), che il nonno si mettesse il vestito buono, quello della festa per intenderci, ogni sera prima che, come in un rito solenne, si accendesse la televisione e, come ogni persona educata, egli ricambiasse regolarmente il saluto delle signorine buonasera.

Un tempo quello, che induce tenerezza per l’ingenuità ed il candore con cui bambini, ragazzi o adulti, vivevamo quelle situazioni. Un tempo perduto che mi piace immaginare avvolto in una nebbiolina grigia e sottile, come quella che pervade la Val Padana in autunno. «La scighera. Quella densa bruma mattutina che si alza dalle rogge milanesi, il fiato umido dei fontanili. La nebbia che modifica i contorni del reale, che penetra nel nostro immaginario» [3]. Forse la Lombardia, Milano, sono il luogo ideale per immaginarsi quel grigiore caldo che avvolge un ricordo lontano e caro.

«Nebbia in Val Padana», espressione che Bernacca si trovò a ripetere numerose volte mentre disegnava aree anticicloniche sulla sua leggendaria lavagna, divenne un modo di dire consueto, tra il serio e il faceto. Un luogo comune che finì per essere usato spesso anche da taluni professori per sottolineare l’impreparazione sconcertante di un loro alunno negligente.

Due grandi comici lombardi in auge in quegli anni, Cochi Ponzoni e Renato Pozzetto, hanno voluto trent’anni dopo riprenderlo in una loro canzone. Paradossale e profonda come sanno essere tutte le loro grandi canzoni:  «cosa c’è nella nebbia in Val Padana, ci son cose che a dirle non ci credi, non ci credi nemmeno se le vedi, a parte il fatto che non le vedi. Che cos’è questa nebbia in Val Padana, è un fenomeno dell’umidità, se rimani intrappolato dentro, s’incasina la mentalità» [4].

Un mio caro amico, pur svolgendo un’altra nobile professione, si occupa da quarant’anni con passione e impegno di meteorologia. Raccoglie dati e temperature con paziente cadenza quotidiana e pubblica di tanto in tanto sul giornale locale lunghi articoli sui fenomeni del tempo (il gelicidio dell’inverno 2010-2011; le nevicate straordinarie del febbraio 2012). Potenza della tv o forse dello “zio” Bernacca.

Gabriele Paradisi

 

 

Note

[1] Giorgio Gaber, Com’è bella la città, 1969.

[2] «Quando nel ’72 la Direzione RAI decide di ridurre il tempo della rubrica da tre minuti a un minuto e mezzo. I telespettatori si scatenano: tante lettere di protesta inducono la Direzione a tornare sui suoi passi e a riportare la rubrica alla durata di tre minuti» (Paolo Bernacca, Mio papà, il Colonnello Edmondo Bernacca, Pagine70.com, 18 giugno 2003).

[3] Dino Taddei, Nebbia in Val Padana, rivista anarchica, n. 367, dicembre 2011 – gennaio 2012.

[4] Cochi e Renato, Nebbia in Val Padana, 2000.



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