Epoche. Il garage di Corto


Add to Flipboard Magazine.

he Beatles and Davy Jones at the Cavern Club

C’è molto spesso una cantina o un garage sullo sfondo delle grandi (e piccole) storie. Da quello mitico di Los Altos, al 2066 di Crist Drive dove Steve Jobs (1955-2011) e Steve Wozniak pensarono e costruirono il primo personal computer (Apple I, 1976), all’umido scantinato al numero 10 di Mathew Street a Liverpool, dove i Beatles gettarono le basi del loro inarrivabile successo (1961-1963) [1]. Del resto la cantina e il garage sono lo spazio più discreto di ogni casa, dove le madri hanno sovranità limitata e i padri, normalmente, si accontentano di condividere coi figli un po’ di spazio dove appoggiare qualche attrezzo per i lavoretti straordinari. È pur vero che esistono anche uomini adulti dediti al bricolage o al giardinaggio e allora in quei casi, bisogna ammetterlo, le cose si complicano un po’. Viene persino da credere che questo nostro mondo sarebbe stato forse leggermente diverso se il padre di Jobs avesse avuto quel genere di passioni manuali, ma nella realtà, per fortuna, alla fine qualche coetaneo con la cantina o il garage libero, da destinare a culla di sogni, lo si trova quasi sempre.

Anch’io e i miei amici avevamo un garage di riferimento e il nostro quartiere era ricco di vialetti alberati e giardini. Nulla di paragonabile a quel paradiso terrestre che è la Silicon Valley, ma certo anche il nostro era un luogo delizioso in cui spendere gli anni dorati che precedono il tuffo nel mare gelido e oscuro della vita adulta. Ma più che un incubatoio di idee e di progetti per cambiare il mondo, il nostro garage fu una specie di luogo zen. Un eremo in cui rifugiarsi il pomeriggio e la sera, sicuri di trovarvi sempre le cose e le persone giuste, un posto dove poter parlare per capire e per capirsi.

In quegli anni di piombo e di fuoco che furono gli anni Settanta, mentre altre città vivevano quotidianamente nel terrore e nell’angoscia, tra lacrimogeni e proiettili, tra sangue e macerie, la nostra quieta provincia trascorreva lenta i suoi giorni, magari un po’ sonnolenti ma di certo tranquilli. Una enclave di serenità insomma. Andare e tornare da scuola non era motivo di apprensione per nessun genitore. I bambini potevano scorrazzare in bicicletta per le strade del centro o della periferia senza timori o particolari attenzioni. Il fragore degli scontri, delle sparatorie, degli attentati, ci giungeva solo la sera attraverso i telegiornali, attenuato. La leggera frustrazione che poteva coglierci qualche istante (s’era pur sempre ragazzi), di sentirci ai margini degli eventi che stavano facendo la storia, era compensata dal ritmo molle di ogni “periferia dell’impero” a cui poi, in definitiva, è molto facile e dolce “naufragar” e abbandonarsi.

Comprendo dunque la riflessione che Michele Serra ha dedicato a quegli anni e a come (magari per pura casualità logistica) ognuno di noi li ha vissuti.

«Fiorisce la memorialistica più o meno critica sugli anni Settanta, narrati come un intrico di ideologie smodate e di violenze, attentati, terrorismo, fanatismo. Lo furono senz’altro, tanto da legittimare sia la riprovazione postuma di chi militò nell’estremismo e oggi se ne duole, tanto la nostalgia di chi rimpiange le vigorose passioni del tempo. Capita, però, che qualche milione di italiani, già allora vivi e vegeti, si sentano esclusi dal cast. La politica violenta coinvolse qualche decina di migliaia appena tra leader e comprimari, di ragazze e ragazzi. La stragrande maggioranza, tra i quali mestamente mi riconosco, non vide neanche il lampo di una molotov. Pur interessandosi di politica, non fu neppure sfiorata dal crimine: l’unica pistola che maneggiai in vita mia fu quella di un collega cronista di nera che aveva il porto d’armi per difendersi dalla mala, e la dimenticò sul cruscotto della mia macchina gettandomi nella paranoia più fonda. Bisognerebbe dunque, con tutto il rispetto per l’esuberanza di parecchi miei coetanei, che qualcuno dei tanti inermi di allora provasse a scrivere una memoria dei Settanta esente da combattimenti (anche a mani nude), e di conseguenza esente da pentimenti e/o rivendicazioni. Potrei scriverla io, ma temo che sarebbe molto noiosa» [2].

Al di là che la noia non è necessariamente un sentimento negativo se l’alternativa è la frenesia allucinata e devastante, una memoria dei Settanta può anche soffermarsi su quelle che apparentemente possono sembrare storie minori, ma che restano pur sempre storie di vita, magari ordinaria e quotidiana ma comunque sempre vita vera, per di più vissuta dalla stragrande maggioranza delle persone. Il nostro garage dunque, come dicevo, non fu teatro di grandi gesta, come per l’appunto altri milioni di garage e di cantine, ma anche la normalità o forse soprattutto la normalità, può racchiudere qualche tesoro. Basta cercarlo e ovviamente saperlo riconoscere.

In quei pochi metri quadrati aperti sull’asfalto di un cortile condominiale, ad esempio, io ho avuto la fortuna di trovare amici veri in carne ed ossa (amici per la vita) e veri amici di carta e china (amici di vita). I primi me li sono ritrovati accanto anche nei momenti più fragili e difficili, anche se non ci si vedeva o sentiva da anni, i secondi mi hanno accompagnato e mi accompagnano tutt’ora, discretamente, con lievità al pari di presenze silenziose e impalpabili. Eppure sapevo e so che da loro, o meglio in loro, posso ritrovare a comando qualche leggera carezza, qualche attimo di conforto. Solo poche parole per alleviare una pena, nulla di più. Niente di straordinario o decisivo quindi, ma semplicemente un refolo di aria fresca che è comunque pur sempre un soffio di speranza quando ci sembra di soffocare.

Uno di questi amici “speciali”, forse il più caro di tutti, è senz’altro Corto Maltese. Corto lo conobbi al garage un pomeriggio d’estate del 1976. In quei mesi di vacanza scolastica lavoravo in una carrozzeria con mio zio e arrivavo al garage solo verso sera intorno alle sei. Corto me lo fece incontrare uno degli amici. Ricordo che quel giorno se ne stava in po’ in disparte, elegante come sempre, un orecchino al lobo sinistro e un sigaro sottilissimo ai lati della bocca. Aveva uno sguardo penetrante a cui non era facile sfuggire e fu così che restai folgorato ad ascoltare la sua storia. Parlava di mari salati e lontani, a sud. Di profumi e di isole da sogno. E di una ragazza, Pandora, perché non può non esserci una ragazza in ogni bella storia, vera o inventata che sia. Da quel giorno io e Corto non ci siamo più persi di vista, del resto «due buoni compagni di viaggio non dovrebbero lasciarsi mai… potranno scegliere imbarchi diversi saranno sempre due marinai…» [3].

È così che ho potuto godere tutte le altre sue storie e avventure in giro per il mondo. Per mare e per terra. Tra mattine di farfalle e fiori e brume celtiche; tra lagune di sogni febbricitanti e torridi deserti di Rimbaud [4]. Voi mi direte, d’accordo, hai trovato le sue storie affascinanti ma che insegnamento concreto può averti dato un pirata senza d-o, per di più immaginario, come Corto Maltese? Ebbene, non ci crederete, ma mi ha insegnato diverse cose. Una in particolare è più preziosa di altre. Mi ha insegnato che al mondo esistono dei luoghi magici, luoghi concreti o dello spirito, da cui, attraverso impercettibili varchi, è possibile fuggire verso altri mondi. Sono delle vere e proprie vie di fuga dalla realtà quotidiana quando essa diventa insostenibile. Non è un insegnamento da poco…

Come ogni grande maestro, Corto ci dà le chiavi per riconoscere questi luoghi attraverso i suoi silenzi e il linguaggio del corpo. Quasi ad ogni pagina, su ogni tavola, in ogni tratto di china. Occorre solo entrare in sintonia con il racconto, abbattere ogni barriera razionale e aprire la mente al sogno e allo stupore dei bambini. In un’occasione Corto di questi luoghi ne ha indicati tre esplicitamente. È capitato nella città che egli ama più di ogni altra cosa: «Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti. Uno in Calle dell’Amor degli Amici. Un secondo vicino al Ponte delle Maravegie. Il terzo in Calle dei Marrani nei pressi di San Geremia in Ghetto Vecchio. Quando i veneziani sono stanchi delle autorità costituite vanno in questi tre luoghi segreti e aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle Corti se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie» (Corte Sconta detta Arcana, 1974).

Ed è così che grazie a lui ho imparato anche a conoscere la vera Venezia, camminando nei sestieri meno frequentati o addirittura meravigliosamente ignorati dai turisti. E seguendo quei fili invisibili indicati da Corto mi sono fatto incantare da calli dirute, da corti ignote… C’è una meravigliosa guida di Venezia scritta a quattro mani da Guido Fuga (un nome non è mai per caso) e da Lele Vianello, forse i due massimi collaboratori di Hugo Pratt, che ci fa scoprire itinerari insoliti. Osterie, chiesette, chiostri, dove in ogni stagione, con ogni tempo, pioggia o sole, si può respirare la magia di quel «doppio labirinto di terra e d’acqua» che è l’incantevole e unica città di Venezia [5].

Siete ancora dell’idea che Corto non mi abbia donato dei piccoli, grandi tesori?

Ripenso spesso alla serenità di quei momenti trascorsi coi miei amici e con Corto nel garage e in quel cortile ombreggiato di provincia. Già al tempo ero perfettamente consapevole della magia che avevo la fortuna di vivere e in quella pace che mi circondava mi capitava di chiedermi come fosse possibile che esistessero anche, e magari nemmeno troppo lontano da lì, dei luoghi di dolore, di sofferenza, dei luoghi di violenza.

Perdendomi in quella dolcezza condivisa con i miei amici più cari, mi sovveniva frequente un’immagine. Pensavo a chi viene a trovarsi, per propri errori, per puro caso o per via di un destino “cinico e baro” in una situazione senza uscita, magari un soldato in battaglia, un condannato o chi per qualunque ragione sta per “cadere sul suo ultimo metro” [6]. E mi chiedevo se anche costui avesse mai avuto un garage o un cortile in cui, come in un amorevole e protettivo grembo materno, s’era sentito sicuro e felice un tempo lontano e perduto. Se così fosse stato, quel ricordo di un luogo ormai irraggiungibile nello spazio e nel tempo, sarebbe comunque accorso in suo aiuto nel momento più terribile. Avrebbe, come ci insegna Corto, potuto aprire una porta segreta e fuggire con un ultimo sorriso in un’altra storia e in posti bellissimi. Lasciando il male e la disperazione desolatamente a bocca asciutta.

Gabriele Paradisi

 

Note

[1] Il Cavern Club, inaugurato il 16 gennaio 1957, era uno scantinato che durante la guerra era stato utilizzato come rifugio bellico. I Beatles vi si esibirono 292 volte, la prima il 9 febbraio 1961 e l’ultima il 3 agosto 1963. Il locale venne chiuso nel maggio 1973.

[2] Michele Serra, l’amaca, la Repubblica, 14 gennaio 2007.

[3] Francesco De Gregori, Compagni di viaggio, 1996.

[4] Corto Maltese nasce dalla penna di Hugo Pratt (1927-1995) nel 1967 con La ballata del mare salato ambientata nelle isole del Pacifico durante la prima guerra mondiale. Seguiranno ventuno racconti scritti e pubblicati tra il 1970 e il 1973 che si sviluppano tra Sud America, Veneto, Paesi Celtici e Corno d’Africa. Nel 1974 esce Corte sconta detta arcana, ambientato tra Hong Kong, la Cina e la Siberia; segue Favola di Venezia (Sirat al Bunduqiyyah) del 1976; quindi La casa dorata di Samarcanda (1980). Seguiranno La giovinezza (1981), Tango (1985), Le elvetiche “Rosa Alchemica” (1987) e Mu (1988) ambientata nell’Oceano Atlantico. Nessun grande mare poteva essere dimenticato da Hugo-Corto.

[5] Guido Fuga, Lele Vianello, Corto sconto – itinerari fantastici e nascosti di Corto Maltese a Venezia, Lizard Edizioni, 1997.

[6] Francesco De Gregori, Santa Lucia, 1976.



Devi essere registrato per inviare un commento Entra o registrati