A pesca nel Mar di Tasmania


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theLighthouseTasmaniaEra la prima volta che mettevo piede in Nuova Zelanda, avevo racimolato qualche cliente sparso da visitare per cui, come d’abitudine, decisi di visitare i clienti più importanti per farmi un’idea del mercato che, pur essendo in un territorio vasto come l’Italia, contava di una popolazione di circa dieci volte inferiore; m’interessava anche visitare Auckland che si trova esattamente agli antipodi della mia città, Genova.

Sbarcai dall’aereo a Christchurch, nell’isola meridionale, dove mi sarei fermato un paio di giorni per acclimatarmi e visitare un cliente. L’Agenzia di viaggio australiana mi aveva prenotato una camera in un albergo ai margini della città, una bella camera che si affacciava su una pianura dove vivevano molti cavalli; mi avevano riservato anche una Range Rover dal momento che intendevo arrivare su a Nord fino a Auckland guidando.

Scesi al bar, per prendere un caffè e alcune zollette di zucchero per i cavalli. Uscii e mi avvicinai alla staccionata che recintava la proprietà, mi ci sedetti sopra e mi guardai intorno: il posto era bellissimo, sembrava di essere in un ranch negli U.S.A., in lontananza verso la costa occidentale, si elevavano le vette molto alte, innevate, anche con ghiacciai.

Una cavalla col puledro, incuriosita, vedendomi immobile, si avvicinò annusando l’aria, tirai fuori le zollette di zucchero e le porsi col palmo aperto, immediatamente si creò un rapporto e anche il puledrino si avvicinò a gustare lo zucchero. Per me furono attimi da ricordare, in quello splendido Paese, incontaminato, riuscire ad avere un rapporto di amicizia con una cavalla e il suo piccolo, che vivevano allo stato semibrado, mi riempì il cuore di calore!

Cenai in quell’albergo, mi procurai una carta stradale della Nuova Zelanda e il mattino dopo mi recai dal cliente, fuori Christchurch e poi m’avviai verso Nord.

L’isola Sud è più estesa dell’isola Nord, impiegai due giorni ad arrivare al traghetto che collegava con l’isola Nord.

A un certo punto la strada si divise e imboccai la parte che valicava le montagne verso Ovest, che si chiamano Alpi come le nostre, paesaggi fantastici, sembrava proprio di essere in Italia: pianure, colline, montagne, ghiacciai, laghi, fiumi con una natura pressoché intonsa, non scendo in dettagli sulla flora e della fauna. Mi sembrava di essere a casa, in un paio d’ore si poteva partire dalla riva del mare e andare a sciare!

Presi la strada costiera, spiagge a non finire, deserte, arrivai a Nelson, una bella città di circa cinquantamila abitanti che si affaccia sullo stretto di Cook, circondata da piantagioni di luppoli e di frutta. Questa città è celebre in New Zealand per un Festival d’Arte a cadenza annuale ed ci sono anche molte rovine della civiltà maori.

Il mattino successivo continuai la strada per Picton dove presi il traghetto per Wellington nell’isola Nord, poco più di tre ore di navigazione, dove visitai un cliente. Ci stavo provando gusto a viaggiare in quel magnifico Paese che assomigliava tanto all’Italia, avrei voluto avere molto più tempo a disposizione.

Continuai il mio viaggio verso nord, mi fermai a pernottare a Hamilton, dove avevo un altro cliente da visitare. Ero stato sempre in contatto con il cliente più importante nella capitale Auckland, per cui affrontai l’ultima parte del viaggio quasi in allegria, mi sarei fermato qualche giorno dal cliente che conoscevo bene che, sicuramente avrebbe inventato qualcosa per farmi stupire e divertire.

Arrivai in fabbrica nel primo pomeriggio e, dopo un’oretta di convenevoli, mi accompagnarono a un bell’albergo sul mare dandomi appuntamento per la cena.

Quella sera fu un grande onore per me: conoscendo la mia passione per il mare e le attività connesse, mi portarono a cena al “Royal New Zealand Yacht Squadron” dove fui trattato come ospite d’onore e mi regalarono un quadro “mezzo scafo” che rappresentava la barca “Black Magic” che avrebbe corso in “America’s Cup”, l’anno successivo, vincendola. Andai poi a vederla perché era in allestimento.

In quella serata conobbi anche il Presidente di un club di pesca sportiva d’altura, persona molto simpatica, che mi invitò a pesca con lui la domenica.

Un’altra giornata di lavoro intenso e poi finalmente, la domenica a pesca! Mi venne a prelevare alle 05.00 con un furgone che aveva a traino la barca, un “Chriscraft” lungo una decina di metri, munito di piccolo tripode e due motori da 1000 HP.

Arrivammo al porto, mi fece scendere dal furgone e salire sulla barca poi, a marcia indietro, scese una rampa e varò la barca con me sopra. Poi posteggiò il furgone e mi raggiunse.

Il rombo dei motori suonava come musica alle mie orecchie, la barca, planante, era velocissima e in circa mezz’ora di navigazione raggiungemmo la zona di pesca, nel Mar di Tasmania, dove transitavano le prede che ambivamo, i marlin o pesci vela come vengono chiamati da noi, i grandi pesci da corsa.

Giunti in zona, l’amico pescatore attrezzò due canne poderose con esche artificiali e iniziammo la traina.

La traina è uno dei tipi di pesca che preferisco, perché mi permette di assaporare la bellezza del mare e dei panorami stando pur sempre attento al minimo movimento della canna.

Quel giorno sembrava destinato a una pesca infruttuosa, dopo un paio d’ore di navigazione non avevamo visto nessun pesce e le canne erano immobili, purtroppo stava girando il vento e il mare si stava alzando. Stavamo discutendo se era il caso di virare e tornare verso Auckland quando la mia canna dette uno strappo e la bobina iniziò a rilasciare filo. Immediatamente John ricuperò la sua esca, per non aggrovigliarla con la mia, dando istruzioni a me, seduto sulla sedia da combattimento con cintura portacanna che lasciavo correre il pesce.

John mi disse che era un marlin, non troppo grande, ma che mi avrebbe fatto divertire.

Iniziò la dura battaglia del tira e molla, ricuperavo lenza poi, quando la resistenza aumentava, alzavo la canna e gli prendevo un paio di metri, poi mollavo di nuovo, ma la lunghezza della fuga continuava ad accorciarsi. Intanto il mare iniziava ad alzarsi, John mi suggerì di accelerare il ricupero perché rischiavamo di prendere le onde al traverso.

Accelerai il ricupero e finalmente lo vidi: a una cinquantina di metri vidi un lampo d’argento saltar fuori dall’acqua, era un bel pesce con la grande pinna dorsale iridata; accelerai ancora e finalmente non combatte più, si lasciò trascinare fino alla barca.

John mi disse che era piccolo, sarebbe stato meglio lasciarlo andare, lo guardai bene, era il primo che prendevo in vita mia, bellissimo con colori fantastici, era un “Black Marlin”, era un peccato ucciderlo, John lo slamò, ebbe un guizzo e si tuffò a fondo, mi dispiacque ma ero anche contento.

Il mare si stava alzando velocemente e pericolosamente, una barca planante a fondo piatto non era l’ideale, sbatacchiavamo da una parte all’altra e il tripode ondeggiava pericolosamente. John pilotava come se partecipassimo a una corsa, saltavamo da un’onda all’altra e ogni tanto eravamo sommersi. Consigliai John di andare più piano, avevo già visto barche di plastica spaccate in due dalla torsione causata dalle onde. John si offese e pensò che l’avessi accusato d’incoscienza, intanto per entrambi rimaneva difficile anche il tenersi aggrappati ai montanti della timoneria.

Ormai le onde raggiungevano l’altezza di circa due metri e la barca a quella velocità era sbatacchiata come un turacciolo di sughero; suggerii nuovamente a John di rallentare, mi accusò di essere un pavido, infine con gesto plateale, mi cedette la ruota del timone. Rallentai leggermente ma invece di prendere le onde di prua iniziai a prenderle al mascone, sbattevamo sempre, ma almeno non c’era pericolo di spaccarsi in due.

Arrivammo finalmente in porto e caricammo la barca sul carrello. Controllammo se c’erano danni, per fortuna niente d’importante. John mi riaccompagnò all’albergo e, al momento del saluto, mi regalò lo stemma della società della pesca d’altura e, quasi vergognandosi, mi disse: “Sei un ottimo marinaio, non l’avevo immaginato”.

Così finì la mia giornata di pesca nel Mar di Tasmania, avevo preso il mio primo marlin, che restò anche l’ultimo…..

Restai ancora a lavorare per un paio di giorni in modo positivo; erano gente molto simpatica ed accogliente, scoprii che l’Italia era il maggior esportatore di kiwi in Nuova Zelanda! Essendo le stagioni invertite, in inverno importavamo dalla Nuova Zelanda, mentre in estate esportavamo!

Parlammo di sport, erano dispiaciuti perché il “rugby” non era moto diffuso in Europa, ma quando dissi che da ragazzo avevo giocato, immediatamente mi portarono a vedere l’allenamento dei “Blacks”!

E’ uno di quei Paesi che mi mancano molto.

Presi l’aereo il mattino successivo per Tahiti.

Sandro Emanuelli



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