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Storie di vita. A pesca in Sri Lanka

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-Sri-LankaIl lavoro mi portò in Sri Lanka, quella splendida verde isola rigogliosa situata di fronte al subcontinente indiano, patria del miglior thè del mondo e della gentilezza della popolazione Tamil.

A Colombo, la capitale, avevo un cliente, amico personale, era stato anche ospite in casa mia a Genova, e stavamo trattando un grande impianto e la discussione avrebbe portato via svariati giorni.

Per il fine settimana mi accompagnò a Berwela, una splendida zona sulla costa, a una quarantina di Km. da Colombo, dove era socio in tre alberghi: il primo a basso costo, il secondo medio costo e il terzo lussuoso.

Fu deciso che, per evitare interruzioni nell’ufficio di Colombo, avremmo continuato la trattativa in un albergo a Berwela: per le prime tre notti dovetti cambiare albergo per scegliere quello più idoneo a me, scelsi il medio, perché la “guest manager” era una bellissima donna Tamil dal sorriso abbagliante!

Il mio amico andava e veniva dalla fabbrica e io mi divertivo a scoprire i dintorni.

Mi avevano sistemato in una camera da letto a pianterreno, che si affacciava sul giardino, pieno di fiori, di palme da cocco e di banani e casualmente, di cobra. Il letto, protetto da zanzariera a baldacchino, era posto al centro della stanza, chiesi come mai, mi risposero che era per evitare che i serpenti si arrampicassero sul muro e da questo al letto. I piedi metallici del letto erano posti dentro barattoli pieni di benzina, contro gli scorpioni mi dissero! Sapevo già, per esperienza africana, che era consigliabile al mattino sbattere le scarpe rovesciate, a volte ci si rifugiano inquilini pungenti. A dispetto di tutte le protezioni, quella notte non mi riuscì di dormire: un bel geco, sarà stato lungo quasi un metro, si sistemò sul soffitto direttamente sopra la mia pancia e, con la lingua saettante e schiocco potente, si nutrì di zanzare. Sapevo che i gechi erano innocui, ma questo continuava a guardarmi! Ero a disagio, se avesse deciso che gli ero simpatico e si fosse lasciato cadere sulla mia pancia da sopra la zanzariera per abbracciarmi? Sarei rimasto prigioniero…

Sri-Lanka-Blue-Whale-WatchingIl giorno dopo, seduto a un tavolino in giardino con il cliente, discutemmo un poco di lavoro; continuavo a guardarmi intorno meravigliato, era uno spettacolo fantastico! Il giardino era separato dalla spiaggia da una staccionata dipinta di bianco e il colore della sabbia era crema e il mare era verdeblu, sembrava un piccolo paradiso.

In un angolo del giardino, un elefante era sdraiato sotto una palma, l’amico mi fece vedere le differenti palme da cocco: quello da mangiare e quello da bere. Gli dissi che da ragazzo bevevo sempre il “latte di cocco” dai venditori ambulanti, ridendo si domandò cosa ci mettevano dentro! Mi domandò se lo volevo bere fresco, ovviamente risposi in modo affermativo, ci avviammo dall’elefante, il mio amico mi chiese se ero mai montato su un elefante, al mio diniego, mi disse che era ora d’incominciare a farlo. M’insegnò a montare sul bestione: un piede sulla gamba piegata, una spinta e in groppa, mi allungò un machete e l’addetto, non ricordo il nome tamil, diede ordine all’elefante di alzarsi. Mi dissero di alzarmi in piedi tranquillo, l’elefante non si sarebbe mosso. Ero proprio vicino alle noci di cocco, grandi, verdi, con il machete ne feci cadere tre. Operazione conclusa, il bestione si sdraiò di nuovo e riuscii a scendere da solo. M’insegnarono ad aprire il cocco con il machete e bevvi direttamente, una squisitezza, era fresco come se fosse stato in ghiacciaia…Più avanti, inventai una specie di cocktail: presi un cocco da mangiare, conteneva ovviamente un poco d’acqua, aggiunsi un bicchiere d’arak, con il cucchiaio staccai la polpa dall’interno, rimescolai bene e poi mangiai e bevvi nello stesso momento! Molto buono!

Ridendo, l’amico mi disse che erano un Paese considerato retrogrado, ma c’era sempre da imparare! Giusta osservazione.

In seguito sviluppai l’amicizia con l’elefante, addomesticato, che veniva usato per esempio a spostare gli alberi, era un piacere vedere la sua intelligenza applicata al lavoro. Presi l’abitudine di portarlo a fare il bagno in laguna tutte le sere, anche per eliminare parte dei parassiti che si annidavano nella pelle rugosa. Dapprima affiancai l’addetto, poi lo portai da solo, lo cavalcavo e quando raggiungevamo l’acqua, mi alzavo in piedi e mi tuffavo dalla sua schiena.  Poi gli spruzzavo l’acqua sul corpo. Una volta, giocoso, mi sorprese spruzzandomi addosso l’acqua dalla proboscide, ne nacque una battaglia per il delirio dei turisti tedeschi che guardavano.

Insomma, eravamo diventati amici, mi azzardai anche ad andare a fare un giro nella jungla, a cavallo della sua testa, bellissimo! Quando partii definitivamente, mi dispiacque moltissimo lasciarlo; stetti lontano dall’isola per quattro anni, quando tornai, mi feci portare direttamente dall’aeroporto all’albergo, sceso di macchina, mentre mi guardavo intorno per vedere se era cambiato qualcosa, mi arrivò da dietro uno spintone che mi fece volare un paio di metri più in là sul prato. Era lui, l’elefante, mi aveva riconosciuto e quello era una specie di abbraccio. Avevo le lacrime agli occhi…

Un giorno il Direttore dell’albergo mi disse che aveva saputo dal mio amico che amavo pescare, mi offrì la sua canna lancio con l’artificiale e mi suggerì di andare poco lontano, dove il fiume si gettava in mare, formando una curva. Non me lo feci dire due volte, ero già in costume da bagno, presi la canna e mi diressi alla curva del fiume.

Il terreno era sabbioso, entrai in acqua e l’assaggiai, era salmastra, l’ideale per la pesca. Cominciai a lanciare e ricuperare, intanto mi guardavo intorno: la spiaggia, alla curva, confinava direttamente con la jungla, invece, dove entrava in mare, c’era un isolotto attaccato alla terraferma. Era bellissimo!

A un tratto sentii un colpo alla canna, molto forte, non fidandomi troppo del mulinello e della qualità della lenza, invece di ricuperare con la manovella decisi d’indietreggiare verso l’interno. Apparve il pesce: un barracuda gigantesco alto quasi quanto me, più tardi lo pesai all’albergo, 11 chili! Lo presi sotto la gola, in quella che chiamano la maniglia e lo portai sulla sabbia.

In quel momento mi sentii interpellare in inglese: “Il Signore ha voluto donarti la tua cena”, mi voltai, un monaco più grasso di me, sorridente, mi guardò, mi venne istintivo rispondere: ”Noto che ha provveduto ai tuoi pasti da tempo, considerando i diametri delle nostre pance”! Molto simpaticamente sorrise e m’invitò a visitare il monastero che era nella jungla poco distante e m’indicò la strada. Mi fece anche notare non ero vestito in modo dignitoso per stare nel territorio sacro del monastero. Mi scusai, non lo sapevo che la spiaggia era territorio del monastero, dissi che sarei andato a vestirmi all’albergo e sarei ritornato subito.

All’albergo dopo aver pesato il barracuda, mi rivestii e decisi di regalare il pesce ai monaci, visto che l’avevo pescato nel loro territorio. Lo avvolsi in foglie di banano e lo mi presentai al monastero. I monaci erano cinque e mi accolsero con piacere, seguendo le regole posai il pesce per terra davanti al monaco più importante, che era quello che avevo incontrato alla spiaggia; fu colpito dal mio gesto e m’invitò a cena con loro. Il pesce fu portato in cucina per essere cucinato e noi ci sedemmo per terra, intorno a un piccolo fuoco, a sorseggiare del thè e a chiacchierare.

Mi subissarono di domande su di me, la famiglia, l’Italia, cui risposi con la mia abituale sincerità, poi passammo ad argomenti più seri, religioni e altro.

Arrivò il barracuda tagliato in trance e cotto alla griglia, era buonissimo, mangiammo con le mani, bevvi acqua di cocco e, alla fine, mi offrirono dell”arak”, fatto da loro, che tenevano per gli ospiti o se qualcuno si fosse sentito male.

Prima di andarmene via, decisi di lasciare 10 dollari americani per i poveri, fu molto apprezzato.

Il monaco che sembrava essere il capo, mi disse di aspettare un attimo, entrò nel monastero e ritornò posando, con la stessa cerimonia, una collana scura ai miei piedi, mi disse che era un regalo dei monaci perché “come il leopardo, mi sono appostato e ho catturato la preda. Sicuramente incarnavo un leopardo”.

Era buio e non potei vederla bene, mi congedai e tornai all’albergo. La guardai attentamente in camera mia, era formata da fili scuri sottili, sembravano fil di ferro e terminava con un pendaglio in cui erano inseriti due artigli di leopardo, come aveva detto il monaco.

Il giorno dopo arrivò l’amico con il cognato, che era un affermato orefice a Colombo, gli mostrai la collana, la guardò con la lente, mi disse che era argento antico, un manufatto molto vecchio per cui non era in grado di fare una valutazione.

Da allora quella collana è sempre con me, mi ha seguito in tutto il mondo, è il mio portafortuna.

Sandro Emanuelli

redazioneBonVivre

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