Storie di vita. Al di là delle Piramidi, sulla nave del deserto


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OLYMPUS DIGITAL CAMERATrascorrevo molto tempo in Egitto, terra meravigliosa con abitanti molto simpatici; un giorno comprai degli oggettini da portare in regalo a casa e contrattai un paio d’ore col venditore: scene comiche col padrone del negozio che chiamava una decina di ragazzi che giocavano in strada, dicendo che erano suoi figli, per cui non poteva praticarmi nessuno sconto, io, che mostravo una foto di mio figlio piccolo e l’accusavo che l’avrebbe fatto piangere se non portavo il ricordino. Me la cavai con il 50% di sconto sul prezzo richiesto e un regalino “per aver avuto il piacere di discutere con te, visto che siamo parenti” “Parenti?” Risposi; “Si, Antonio e Cleopatra hanno avuto un figlio e forse noi siamo i discendenti”. Restai di stucco, questa non l’immaginavo, una bella risata concluse la transazione.

Passavo molto tempo al Cairo in quanto stavo aprendo un ufficio locale per l’Azienda in cui lavoravo, inoltre istruivo un agente e visitavo clienti.

Avevo anche un amico, conosciuto a Genova tramite un conoscente dell’Alitalia, figlio di un ministro del governo Sadat, era comproprietario di un’Agenzia di Viaggi. A volte, la sera, se aveva bisogno di aiuto per portar a cena delle clienti, mi chiamava e facevo l’egiziano, ero molto abbronzato, con un vestito del padre del mio amico.

Un giorno, in attesa di quattro giorni di festeggiamento, mi chiese se potevo prendermi tre o quattro giorni di ferie perché gli sarebbe piaciuto che l’accompagnassi in un viaggio.

La sua famiglia era di origine nobile in quanto discendente dal Profeta in via materna, mi raccontò, era molto ricca e apparteneva a una grande tribù beduina nomade molto importante di cui lo zio, il fratello maggiore del padre ne era lo sceicco. In questa stagione si avvicinavano al Cairo, al-Qahira in arabo, e si attendavano per qualche settimana.

Era ormai tradizione che la famiglia residente al Cairo andasse a trovarli, suo padre non poteva e allora aveva suggerito che il figlio portasse me.

Una rapida telefonata in ufficio ed ecco accettata la mia richiesta di ferie. Ci recammo nella casa del padre, una villa magnifica sul Nilo e parlammo del viaggio. Il padre, un uomo di grande carisma, volle che provassi un abito arabo, per viaggiare nel deserto, bianco con una fascia verde in vita inoltre, estrasse dalla vetrina chiusa a chiave, due carabine Winchester, proiettili, due pugnali a lama ricurva da fascia in vita e i foderi per tutto.

Salimmo in macchina e ci recammo all’allevamento di dromedari Mehari che il padre possedeva, ci disse che ce ne avrebbe dati tre, di cui uno per i bagagli.

Scelse lui stesso i nobili animali, a me spettò un grande maschio dall’andatura solenne. Volle che li provassimo subito per vedere se c’erano incompatibilità, ma sembrò di no. Noi saremmo partiti nel pomeriggio successivo, viaggiando di notte perché con il sole era troppo caldo.

Avevo meno di quarant’anni e viaggiare nel deserto mi appassionava, l’avevo già attraversato da solo in macchina andando a Suez, l’avevo attraversato in Algeria, dove avevo fatto un’esperienza di cavalcare i dromedari presso una tribù Tuareg, poi in Tunisia e avevo anche attraversato il Negev.

Quella sera non uscii nemmeno, cenai in albergo e mi misi a preparare le valige che al mattino chiusi e lasciai in albergo. Con me portai una sacca da sella che mi aveva prestato il padre del mio amico. Infilai dentro un paio di “Tshirts”, mutande e calzini, avrei indossato lo stesso barracano per tutto il viaggio.

Quella notte dormii male, ero agitato, non era facile, per uno abituato a viaggiare comodamente in macchina o in aereo, affrontare due giorni di viaggio di andata e due di ritorno su un dromedario.

Arrivò il mio amico nel primo pomeriggio e tornammo all’allevamento, suo padre ci attendeva con impazienza, mi disse che gli sarebbe piaciuto venire con noi, ma non poteva. Gli animali erano già bardati, con il pieno d’acqua e il dromedario destinato a trasportare le nostre cose e la scorta d’acqua e di cibo era pronto a partire. Ci cambiammo di vestito, indossai il barracano sopra i jeans e la Tshirt, avevo già gli stivaletti adatti, dei “desert boots” comprati al mercatino dei “surplus” militari. Il padre del mio amico mi suggerì anche d’indossare il “burnus” , il mantello con il cappuccio che difende dal vento e anche dal freddo notturno.

Finalmente, dopo gli ultimi saluti, riuscimmo a partire: il mio amico apriva la strada, sassosa all’inizio e si diresse in direzione dei pozzi dov’era accampato lo zio, usando una bussola, ma dalla tasca delle sella del mehari spuntava anche l’antenna di un telefono satellitare! Con una corda trascinava il dromedario da carico. Io li seguivo e, ogni tanto, mi affiancavo al mio amico.

Dopo la prima ora, il mio amico volle fermarsi un attimo a sgranchirci le gambe, non era sicuro della mia tenuta! Ma stavo benissimo e proseguimmo tranquilli. Il mio mehari dimostrava un interesse morboso per la mia scarpa sinistra, ogni tanto girava la testa cercando di morderla, ma una leggera bacchettata in mezzo al cranio ripristinava subito le distanze.

Ormai il sole era calato, ma c’era una luna splendente che illuminava la strada. Verso mezzanotte ci fermammo a cenare con panini, bevendo acqua e poi una tazza di thè caldo. Ripartimmo, l’ondeggiamento del mehari conciliava quasi il sonno, ma l’aria fresca e soprattutto la magia della notte con quella luna che appariva enorme mi teneva sveglio. Ammaliato dalle ombre delle dune, in testa mi risuonava la colonna sonora del film “Lawrence d’Arabia” , il ritmo si adeguava all’andatura del mehari.

Giunse l’alba, è fantastico veder sorgere il sole dietro le dune, un mutamento continuo di colori, dal rosso al giallo abbagliante, infilai subito gli occhiali da sole per proteggere gli occhi. Prima che la temperatura salisse troppo, il mio amico decise che era giunto il momento di fermarsi a riposare. Smontammo dai rispettivi dromedari e li fece sdraiare lasciando le selle e l’imbracatura. Mi aveva spiegato come riposare e così feci. Eravamo a una decina di metri di distanza per evitare che i mehari potessero agitarsi con la vicinanza; mi appoggiai alla pancia del mio mezzo di trasporto e con il burnus creai una specie di tenda tesandola su due bastoncini creati apposta.

Purtroppo, non avevo interpretato bene le istruzioni, a un tratto il ventre del cammello sobbalzo, emise con rumore dell’aria e, mentre mi rallegravo di essere sopravvento, mi annaffiò copiosamente di urina gialla puzzolente la faccia e il barracano! Balzai in piedi chiamando il mio amico, che subito accorse e, vedendo l’accaduto, attaccò a ridere come un pazzo! Avrei dovuto appoggiarmi alla schiena, non alla pancia! Mi suggerì di togliermi il barracano e lo posai sulla sabbia ad asciugare e, in mutande, mi appoggiai alla schiena del mehari che alzò la testa a guardarmi come se fosse stato cosciente dell’accaduto, forse l’aveva fatto apposta! Per fortuna il burnus non era stato bagnato e così lo indossai alzando il cappuccio per ripararmi la testa dal sole. Più tardi, ci rifocillammo di nuovo con panini e mentre il sole cominciava a calare, riprendemmo il cammino.

Il barracano si era asciugato, però aveva assunto un colore giallastro che assomigliava al colore delle dune e inoltre il tessuto si era indurito. Per fortuna ero riuscito a lavarmi il viso con l’acqua di scorta che avevamo sul terzo cammello! Sentivo un fetore intorno a me che avrei portato per tutto il viaggio.

A parte il fetore, avevo perso la cognizione del tempo, stavo solo attento a non addormentarmi per non cadere, anche il secondo giorno passò come il primo, nessuna novità, non ero stanco, ma mi rendevo conto che ero quasi in uno stato di coma vigile, il mio pensiero si trasferiva davanti a noi e vedevo noi stessi da un’altra angolazione. Effetti del deserto!

Finalmente, il terzo giorno, il mio amico mi disse che eravamo quasi arrivati, la tribù era accampata vicino a dei pozzi di loro proprietà; per l’eccitazione aumentammo l’andatura dei mehari, nati per correre, che sentivano probabilmente l’odore dell’acqua.

Dall’alto di una duna vedemmo l’accampamento, enorme! Grandi tende ariose con una tettoia davanti all’ingresso. Fummo avvistati e tre persone ci vennero incontro montando dei cavalli. Ci fermammo e smontammo, era il vecchio sceicco, felicissimo, non finiva più di abbracciare il nipote, poi venne il mio turno, abbraccio, baci e un bel benvenuto in un ottimo inglese. Parlarono tra loro in arabo e l’amico tradusse per me: lo zio aveva detto che puzzavo come un cammelliere, quindi ero doppiamente benvenuto.

Nella grande tenda dello sceicco, piena di tappeti e oggetti vari, tra cui una TV, fu una sorpresa per me scoprire che avevano un potente generatore di corrente giapponese con cui alimentavano anche il frigorifero. Dietro la tenda c’erano montate una parabola satellitare per la TV e una per il telefono.

Mi piaceva l’idea di fare il nomade nelle tende, ma avere tutte le comodità della vita cittadina!

Lo sceicco mi prestò un barracano e portarono via il mio per pulirlo bene.

Mi offrirono anche una poltrona, ma decisi di sedermi a terra, sui cuscini, come loro. Tra le varie comodità del campo, mi fecero vedere anche l’impianto idraulico che pescava in un pozzo e nella tenda dello sceicco c’era pure l’acqua corrente e, con sorpresa, una tenda/doccia! Ne approfittai con piacere.

Mi trovavo a mio agio, per cortesia conversavano in inglese e fui travolto da una valanga di domande intelligenti. Incominciarono a entrare i vari personaggi della tribù che silenziosamente si sedevano sul tappeto di fronte a noi. Lo sceicco mi aveva fatto accomodare alla sua destra, mentre alla sinistra sedeva il nipote.

Portarono la cena: restai a bocca aperta; su un grandissimo cabaret c’era un giovane cammello da latte arrostito, dentro la pancia un agnello e dentro la pancia dell’agnello delle piccole quaglie. Il tutto con contorni di verdure e del riso.

Si mangiava con le mani, lo sceicco come cortesia all’ospite mi preparò il primo boccone, prese un pezzetto di cammello, un pezzetto di verdura e ne fece una palla con il riso che m’infilò in bocca, ebbi occasione di vedergli le unghie! Nessun commento! Non potevo soggiacere a tali cortesie senza reagire, feci una pallina con il pezzo di carne più grasso che trovai e gliela infilai in bocca! Un applauso generale salutò questa mia iniziativa.

Conoscevo le regole del loro galateo, mangiavo con la mano destra perché la sinistra viene usata per pulirsi le parti intime, quindi è impura, venne molto apprezzato questo mio modo di agire, lo sceicco mi ripeté molte volte che era onorato della mia visita e che la sua tenda era la mia tenda.

Avevamo, tra tutti, mangiato circa un quinto del cibo, vennero gli inservienti e portarono via il cabaret che, mi venne spiegato, sarebbe stato consumato dal resto della tribù, perché tutti dovevano godere del cibo offerto a un ospite speciale.

Era rilassante stare lì nella grande tenda, poi mi presentarono i figli dello sceicco, i cui due maschi più vecchi stavano per partire per andare al “college” in Inghilterra.

Passai due giorni bellissimi, per raccontare tutte le mie impressioni dovrei scrivere un libro, dico solo ho apprezzato molto la vera ospitalità beduina.

Venne il momento di partire: un paio d’ore di saluti e finalmente montammo sui mehari, puliti e rifocillati, avevo anche ricuperato il mio barracano, sempre un poco giallino. Vollero accompagnarci per qualche chilometro con i cavalli, mentre lo sceicco parlava ancora con noi, gli altri ci galoppavano intorno sparando con i fucili, anzi, un paio sparavano raffiche con i mitra.

Infine ci lasciammo e cominciò con tristezza il viaggio di ritorno, senza storia, il mio amico ed io non avevamo voglia di parlare, questo ritorno alla civiltà era alquanto stressante.

Ma questa storia non finisce qui, giunti stanchi quasi a Giza, dalle Piramidi, si alzò il simun, il vento del deserto che sollevava mulinelli di sabbia, per fortuna non molto forte. Mi passai la “kefiah” intorno alla testa, ricoprendo bocca e naso, avevo gli occhiali da sole e mi sollevai il cappuccio del burnus.

I mehari conoscevano la strada e non c’era bisogno di guidarli o spronarli. Quando arrivammo vicino alla grande tenda del ristorante “Sahara City”, vicino alle Piramidi, una folla di turisti ci corse incontro per fotografarci, fummo costretti a fermare i dromedari, mentre i turisti più invadenti ci vennero vicino. Un gruppo era particolarmente invadente, li sentii parlare, erano della mia città! Li osservai attentamente, riconobbi quello che cercava di comunicare con me, era un capo deposito dell’ENEL che conoscevo bene.

Mentre mi faceva dei gesti per dirmi non so cosa, mi chinai verso di lui, mi tolsi la “kefiah” dalla bocca e in dialetto gli dissi: ”Scia l’ha finiu de rumpime u belin?” (Trad: Ha finito di rompermi il caxxo?)

Spalancò la bocca, lasciò cadere la macchina fotografica per terra ed esclamò: “Un miraggio del deserto!”

Con la scusa che eravamo stanchi li lasciammo e ci dirigemmo alla fattoria del padre del mio amico.

Quando smontai, mi girava la testa, ma ero felice.

Andai successivamente a trovare l’amico a Genova, speravo nelle foto , ma la macchina si era rotta. Purtroppo si ammalò di cuore e morì in ospedale due anno dopo; quando lo vidi l’ultima volta, mi disse:”E’ colpa tua, non dovevi giocarmi quello scherzo!”

Sandro Emanuelli



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