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La bellezza e la miseria

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«La miseria è ancora l’unica forza vitale del Paese e quel poco o molto che ancora regge è soltanto frutto della povertà. Bellezze dei luoghi, patrimoni artistici, antiche parlate, cucina paesana, virtù civiche e specialità artigiane sono custodite soltanto dalla miseria. […] Perché il povero è di antica tradizione e vive in una miseria che ha antiche radici in secolari luoghi, mentre il ricco è di fresca data, improvvisato […] La sua ricchezza è stata facile, di solito nata dall’imbroglio, da facili traffici, sempre o quasi, imitando qualcosa che è nato fuori di qui. Perciò quando l’Italia sarà sopraffatta dalla finta ricchezza che già dilaga, noi ci troveremo a vivere in un paese di cui non conosceremo più né il volto né l’anima»  Così scriveva Leo Longanesi nel taccuino-diario La sua signora che riprende molti dei suoi editoriali comparsi sul Borghese, prevedendo esattamente ciò che nei decenni successivi si è dimostrato.  Longanesi è stato un moralista e scomodo conservatore,  capace di descrivere la galleria degli errori e degli orrori che oggi tocchiamo con mano,  era convinto che il disordinato sviluppo industriale degli anni cinquanta, il boom economico, la cultura di massa e il consumismo, con le loro ricadute sociali, stavano snaturando l’identità degli italiani, che per lui rimaneva quella contadina.  Già allora rilevava che la politica, che avrebbe dovuto governare la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a potenza industriale, gli appariva inetta a conservare un equilibrio tra tradizione e modernità, e sempre sul Taccuino del 1957 scrisse aforismi grandiosi e più che mai attuali: «Chi rompe, non paga e siede al governo»; «Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione».

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