SplashTv. Il decadentismo dell’occhio e della ragione


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Cosa resta di un reality quando viene declinato in versione super-soap, e le sue storie d’amore sdilinquite e trascinate per dare il senso contrario a quello di un’avventura o di una casualità in “rosa”? A Uomini e Donne, per fare un esempio su tutti – cosa confermata anche dalle puntate della passata stagione -, ormai vengono usati in sovrimpressione serpentoni modello spot pubblicitario, con frasi del tipo: “non perdetevi domani il dopo-scelta di Leonardo”, “fra poco vedrete la risposta a Perla”, “…ma non finisce così!” e simili. Sembrerebbe una ripresa del cosiddetto “romanzo d’appendice”. Forma espressiva che legava la dimensione più squisitamente culturale alla nascente industria dell’informazione, e che non a caso ha avuto il suo massimo periodo di splendore fra l’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Un approccio filosofico-critico ci avverte subito che ogni medium di massa è una combinazione di linguaggio e senso, di strumenti e capacità di percezione e assorbimento del contenuto da parte del nuovo pubblico, o del vecchio modernizzato. Che cosa renderebbe lento, inattuale, o addirittura irrecuperabile, nelle sue modalità di fruizione il classico feuilleton giornalistico? Quello che una volta era il giusto suggello commerciale per una sempre più reticolare offerta di carta stampata e periodici illustrati fortemente improntati in chiave divulgativa, oggi, in tempi di feroce disincanto manageriale, sarebbe una ideuzza destinata a vita brevissima, se non a sicuro fallimento. I giornali non si vendono, le interfacce elettroniche prendono il sopravvento, un intero orizzonte temporale, gestuale, mentale, un’intera antropologia del quotidiano è strutturata inesorabilmente sull’istantaneità, l’ubiquità, la virtualità, l’anticipazione, piuttosto che sui ritmi cadenzati, pazienti, attendisti e meditativi del presentarsi il tal giorno della tale settimana in edicola e divorarsi sfogliandolo il capitolo successivo della trama che ci appassiona, per vedere che fine ha fatto il nostro capitano di ventura, la nostra eroina dal cuore tenero o il nostro assassino imprendibile. E’ davvero difficile immaginare come l’utente degli e-book, degli iPad, sincronizzato sui desideri all’ultimissimo grido, visceralmente travolto dalla simultaneità delle playstation, tele-scolpito da news, gossip, siti free e piogge di mail, multi-proiettato in tempo reale, pure per il gol di una partita di pallone, come nella piattaforma di un video-game, possa recuperare la calma salottiera della pagina scritta e, addirittura, il languore per il sequel di una fiction nero su bianco. Non è un caso, tra l’altro, che molti degli ultimi serial televisivi, che fanno della concatenazione a episodi la loro ragion d’essere, pur annunciati con gran squillo di trombe, siano stati cassati per via di bassissimi share, o recuperati nella “tomba” dei canali digitali, di per sé già meno seguiti di quelli generalisti. Non solo. Alcuni rotocalchi rosa hanno investito nelle rubriche letterarie, così come le classiche “terze pagine” dei quotidiani, ma senza andare oltre la proposta di racconti brevi, gialli da ombrellone, passi particolarmente intensi di questa o quella novità editoriale, ma così, a botta secca e senza strascichi di “molesta” fidelizzazione. Se la spiritualità oggi, è residuale, negli intenti e nelle vendite, se l’intellettualità vive di frammentazione senza storia, dovremo pur farcene una ragione, ma non un motivo di rassegnazione. Il secondo aspetto del problema, infatti, è la forma-romanzo, in crisi già da un secolo abbondante. Le descrizioni d’ambiente, le “atmosfere”, le introspezioni psicologiche che pervadevano il lettore del feuilleton tendevano alle “invarianti” dell’animo umano non meno di quanto corrispondessero alle coordinate ancora rassicuranti dell’universo borghese. Per questo attecchivano con grande facilità libri che ruotavano intorno a categorie stabili: il valore militare, le buone abitudini, le famiglie aristocratiche, le meraviglie della scienza, la lotta fra il bene e il male, il patetico-sentimentale. Nelle retoriche dell’osceno e del falso nelle quali la televisione oggi ci fa vivere continuamente come pesci d’acqua sporca, abbiamo solo la parodia di tutto questo, la tipizzazione di personaggi senza “autore”, figli del reality e del pettegolezzo, della verità orrendamente politicizzata e della volgarità che copre ogni estetica. Una caratterizzazione spesso concepita a tavolino per stupire, banalizzare archetipi, marmorizzare l’emancipazione delle masse, creare copioni che solo “dopo” si adeguano ai topoi dell’umano sentire. Una tecnologia della narrazione che, per dirla alla Augè, può solo “cortocircuitare” la modernità, non costruirla. Anche noi abbiano il nostro bel parterre di cavalieri e nobildonne, solo che rasenta il teatro dei pupi o un girone di invasati. Abbiamo le torbide passionacce di un premier fra minorenni marocchine e soubrettine avide e rampanti. Abbiamo Sgarbi che dopo due parole già grida. Abbiamo i “pupazzetti” sfornati dal Grande Fratello che recitano a soggetto amori e lacrime. Abbiamo la santona De Filippi che crede tanto nel talento dei giovani e nei fidanzamenti di quei poveri “incompresi” che sono i tronisti. Ne abbiamo di prim’attori da piazzare sul proscenio “romanzesco” di questo nuovissimo decadentismo dell’occhio e della ragione. Se sia appendice o “appendicite”, è l’unica cosa che resta da capire.

Carmine Castoro



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