Epoche. Il passato contemporaneo


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MUSICALPer consuetudine, ereditata dalla vita di paese, dunque dai tempi propri della campagna e delle stagioni, i miei erano abituati ad andare a tavola a mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo per pranzo e non oltre le 7 della sera per cena. La dimensione umana di For’Lee, la cittadina sulla quale erano calati per lavoro nel primo dopoguerra, aveva consentito loro di mantenere questa sana abitudine. Le officine e le ditte nelle quali erano impiegati infatti, prevedevano una pausa alle 12 e chiudevano i battenti intorno alle 18 della sera e dunque c’era tutto il tempo di tornare a casa per l’ora stabilita, quand’anche in bicicletta, il mezzo di locomozione principale e insostituibile di For’Lee.

 

In virtù (o a causa) degli orari scolastici la mia presenza per il pranzo, insieme a tutti gli altri componenti la famiglia, era esclusa nei giorni feriali. Ma per cena nessuna scusa era consentita. Nessuna deroga era ammessa. D’altronde, va detto, i miei svaghi pomeridiani dopo lo studio: la passeggiata in centro con gli amici, le chiacchiere con gli altri ragazzi della “compagnia” o una partita a volley nella palestra del Liceo, mi davano comunque modo di giungere a casa senza troppe difficoltà per l’ora canonica. O forse avevo semplicemente modulato quegli impegni alla bisogna. A ripensarci oggi, nella frenesia logistica e tecnologica nella quale tutti siamo immersi, sembra quasi impossibile che sia esistito un tempo in cui, una famiglia tutta intera si riuniva, con regolarità e con continuità, ogni giorno dell’anno, in ogni stagione, con la pioggia o col sole. Sarà forse questa constatazione che mi spinge a rievocare quei tempi e quei giorni, pur così semplici e privi di particolari sussulti. Sarà per cercare di coglierne ancora qualche stilla di preziosa essenza, nonostante la distanza incolmabile che ormai ci separa da essi. Non c’è più quel tempo. Non ci sono più molte persone care. Ma quei giorni ci sono stati e quelle persone sono esistite e continuano a donarmi gioia.

 

Ecco allora che la cena, quel tempo trascorso a tavola coi miei cari, è un ricordo che mi scalda il cuore con tenerezza, affetto e struggente, dolce nostalgia. Ogni particolare, ogni dettaglio che mi riporti a quei momenti è pertanto per me sacro e intoccabile.

 

All’epoca c’era un oggetto principe che era entrato prepotentemente nell’intimità di ogni casa e spesso ne era divenuto il padrone assoluto: la televisione. Quel meraviglioso strumento era solo la prima avanguardia dell’inarrestabile invasione di diavolerie tecnologiche che nei decenni successivi avrebbero invaso e in tanti casi effettivamente distrutto le famiglie. Basta guardare oggi cosa accade praticamente in ogni casa. Tutti i componenti, dagli 8-9 anni in su, sono dotati di un proprio apparecchio telefonico cellulare, possibilmente uno smartphone, scrigno di rubriche riservate, di foto e di video privati; non può mancare almeno un tablet, né qualche notebook e, in alcuni casi, ancora un vecchio laptop. Ogni membro della famiglia, in primis quelli nati nel nuovo millennio o a ridosso, dunque appartenenti a pieno titolo alla generazione digitale, hanno profili in numerosi social network, passano con nonchalance da un mondo virtuale all’altro, da una vita reale ad una seconda vita, spesso popolata di mostri, chattando e tweettando allegramente.

Dunque la scena più consueta che si consuma nei nostri tinelli durante il pranzo o la cena è pressappoco questa: ogni soggetto, tra un boccone svogliato e l’altro, è occupato a scrivere sms, a visionare qualche filmato su Youtube, ad ascoltare musica con le cuffie, a leggere post su qualche blog. I dialoghi sono ormai del tutto inesistenti. Ai miei tempi non era consentito, e nemmeno per la verità se ne sentiva il bisogno, alzarsi da tavola prima che il rito fosse ultimato: “la mensa è finita andate in pace”… Oggi mi capita quasi sempre, nonostante qualche asfittico e inutile vano tentativo, di ritrovarmi in men che si dica tutto solo davanti ad un piatto ancora mezzo pieno. Gli altri già tutti impegnati altrove, rapiti dai loro mondi e dai loro improrogabili interessi.

 

L’antesignano di questa devastante rivoluzione tecnologica, come dicevo, è stata la televisione, la quale per lo meno era una distrazione centralizzata. Aveva sì ridotto drasticamente le occasioni di dialogo, ma almeno tutti, contemporaneamente, si era rapiti dallo stesso oggetto (una cassettina delle ombre e dei suoni), e da quello che da esso emanava.

Ma fin da subito, alcuni eletti, ne avevano capito le potenzialità distruttive. Avevano intuito che la televisione stava rompendo una barriera e che nei decenni a venire nessun’altra resistenza avrebbe potuto opporsi ai nuovi strumenti che diaboliche menti umane stavano concependo in qualche garage o nel sottoscala di qualche laboratorio. Uno dei più lungimiranti, visto che ne scrisse già nel 1952, credo sia stato di sicuro il giornalista e scrittore Paolo Monelli (1891-1984).

 

Inviato negli Stati Uniti per La Nuova Stampa, il 23 ottobre 1952, pubblicò un articolo dal titolo “Simpatie degli elettori sconvolte dalla televisione”, in cui faceva conoscere ai lettori italiani, di un’Italia rurale che stava rinascendo lentamente e faticosamente dalle macerie della guerra, come in America, in occasione delle elezioni presidenziali, ogni candidato entrasse in ogni casa attraverso la televisione, ad un palmo dagli occhi dei telespettatori, col rischio di trasformare un idolo in un personaggio improvvisamente odioso: «oggi, venti trenta milioni di persone in America possono vedere l’oratore a mezzo metro davanti a sé, stando seduti comodamente in poltrona, nell’intimità della casa in penombra — ciascuno dei venti trenta milioni ha il senso che il candidato parli a lui solo, si confidi con lui solo, per lui solo martelli le parole che si disegnano visibilmente sulle labbra, ed escono accompagnate da un ammiccare delle ciglia, da un vibrar di narici, dal corrugarsi della pelle del viso».

 

Monelli aveva già intuito la portata della telegenia e l’importanza dell’immagine:

«Ogni candidato ha dovuto prima di tutto mettersi in regola con il dentista ed il parrucchiere, e farsi ritoccare la faccia da esperti del trucco. Il fiero generale Eisenhower al suo primo comparire sugli schermi televisivi dette una gran delusione a milioni di suoi ammiratori che lo conoscevano solo traverso fotografie ritoccate, o istantanee bene scelte che lo mostravano in atteggiamento marziale: lo videro più vecchio della sua età, con le borse sotto gli occhi e le guance cascanti, e spelato, anche perché i capelli biondicci e le sopracciglia non risaltavano. E allora furono chiamati in gran fretta i tecnici di queste cose, che imposero al fiero generale di farsi mettere uno strato di cerone — bisogna dire che ha recalcitrato per un pezzo — e di farsi ritoccare i capelli con qualcosa di scuro; si sono dati premura che dietro la sua immagine ci sia uno sfondo scuro, e che il viso sia illuminato da riflettori di luce gialla e calda. Con questi ritrovati fa una figura migliore nella cornice ovale dell’apparecchio televisivo».

 

Sono passati molti decenni ormai da quando queste parole sono state scritte, ma ne apprezziamo ancora tutti l’attualità e senza troppo sforzo siamo sicuramente in grado di sostituire ad Eisenhower personaggi a noi più vicini.

«Ma quale influenza può avere sugli elettori un cartellone, uno striscione, anche magari un motto spiritoso, un gigantesco ritratto, una caricatura, al confronto di quello che può fare l’immagine del candidato viva e parlante sullo schermo dell’apparecchio casalingo, veduta in tutti i particolari più minuti, dalle rughe al pedicello, dal disegno della cravatta alla trama della stoffa della giacchetta. Questo ritrovato della televisione fa di ogni candidato, di ogni personaggio di primo piano della lotta elettorale, prima di tutto un attore. E guai se l’attore mostra di non sapere bene la parte, di non avere appreso bene il gestire, il porgere, il sorridere, il lacrimare».

 

Parole sante anche se oggi non possiamo non sorridere a certi passaggi che ricordano la reazione dei primi spettatori alla proiezione dell’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (1885) dei fratelli Lumiere:

«Così l’altra sera ho veduto e sentito anche io, uno dei venti trenta milioni, Stevenson che faceva un suo discorso “Al canto del focolare”, Fireside Chat, come lo chiamano qui; per mezz’ora ho avuto addosso quella sua faccia, sì che mi venne istintivo alla prima di farmi un poco indietro con la seggiola come si fa con l’interlocutore che si avvicina troppo con il fiato».

Monelli, al di là di tutto, aveva soprattutto già intuito che «la televisione, fatto nuovo, relega in seconda linea ogni altra forma di propaganda […] la televisione, per la prima volta da che mondo è mondo, fa sì che si crei fra il candidato e ciascuno dei suoi elettori un rapporto diretto ed intimissimo […] Ma si può chiedere: sono più efficaci gli argomenti, più atti a suscitare passione e consenso, accompagnati dalla visione, o al contrario l’oratore corre il rischio di perdere il favore di chi consente con le cose che dice, ma non gli piace la sua faccia? A quanti milioni di gente il sorriso di Stevenson, che a me pare fino ed arguto, può apparire invece ironico e sfottente? Scorgeranno tutti bontà e umanità nel volto di Eisenhower, o non ci saranno tanti che vi noteranno i segni di una debolezza, di una fiacchezza di spirito finora non sospettata? E sapete bene quello che ci succede spesso con una persona che ci è antipatica, che può parlare come il vangelo, ci vien subito la voglia di contraddirlo. Questi candidati che si fanno vedere troppo e troppo da vicino debbono fare i conti con queste eventualità».

 

Monelli in quell’articolo non lo disse esplicitamente, ma di certo non gli sfuggi anche l’effetto contrario e cioè come un’immagine seduttiva, la capacità di comunicare più col linguaggio del corpo che non con le parole e i contenuti, potessero attraverso la televisione condizionare l’opinione degli elettori. Un pericolo di certo non meno preoccupante.

 

Dopo questo servizio dagli Usa dell’ottobre 1952, Monelli tornò sull’argomento dell’invadenza televisiva un anno dopo. In Italia la sperimentazione, dopo la parentesi bellica, era ripresa nel 1949 con l’installazione sulla collina torinese di un trasmettitore televisivo e di alcune antenne sul tetto della sede Rai di via Verdi, a due passi da piazza Castello, mentre la programmazione ufficiale inizierà solo il 3 gennaio 1954. Pochi mesi prima, esattamente il 18 ottobre 1953, sempre su La Nuova Stampa, Monelli scrisse un memorabile articolo dal titolo “Sperammo invano che in Italia la televisione non si avverasse mai”. Il catenaccio recitava: «Lo zelo degli italiani nell’adottare le novità […] Si chiede un po’ di tregua in attesa della fine del mondo – Inutile illudersi: s’avanza la società dei meccanizzati e conformisti – In ogni casa uno schermo, subdolo strumento di dittatura dello spirito».

 

Con uno stile straordinario Monelli espresse tutto il disappunto per l’avvento della televisione, sottolineando ed enfatizzando gli aspetti deteriori che quello strumento portava inevitabilmente con sé:

«Menti sconvolte. Frettolosi dunque e alacri sono gli italiani a prender su le invenzioni e i nuovi ritrovati; ragione per cui, considerato che nei cinque anni da che la televisione trionfa negli altri Paesi da noi non si sono avuti che timidi esperimenti, c’era la speranza, ripeto, che le difficoltà per introdurla da noi fossero gravissime, invincibili; e si fosse magari scoperto che l’atmosfera che ci avvolge, quella che ci dà cosi tersi cieli, così limpide luci all’aurora e al tramonto, che imbeve di arcane dolcezze i nostri frutti e di solare vigore i vini, che la nostra cristallina atmosfera fosse inadatta alle onde televisive […] La nostra speranza fu vana. Avremo la televisione in Italia, l’abbiamo già, assai prima della fine del mondo; anzi, se la fine del mondo avverrà a rate, e la nostra nazione sarà fra le ultime a scomparire, potremo goderci sullo schermo la visione del cataclisma in America o in Australia e rallegrarci per breve tempo di essere i fortunati e i sopravvissuti. Fra pochi mesi saranno già numerose sugli edifici quelle antenne fatte come un fusto di ombrello; ci saranno in tutti i bar quegli schermi con su la danza di spettrali figure, grigie in una nebbia grigia (per poco tempo, il David Sarnoff Research Center of the Radio Corporation of America ha già fatto esperimenti ben riusciti di televisione a colorì). Per qualche tempo l’alto costo degli apparecchi terrà immuni le famiglie borghesi e operaie da questo flagello (ma vedrete come si agiteranno i giornali di sinistra perché anche al popolo sia concesso contagiarsi di questa tabe); ma è inutile illudersi, gli apparecchi verranno a buon mercato, e con le vendite a rate accessibili a tutti. Se in questi anni l’Italia è rimasta un po’ addietro, riprenderà il suo posto all’avanguardia delle nazioni in marcia verso il progresso; un progresso all’ingiù, voglio dire, una società di analfabeti, di conformisti, di meccanizzati, in cui non ci sarà più posto per la varietà e l’imprevisto della vita, per la libera scelta dell’attività e dello svago. Che verso una società così si vada, è indubitato; l’umanità sarà sempre più schiava delle macchine, e dei pochi individui che abbiano la capacità o la potenza di manovrarle; l’intelligenza cederà il posto all’istinto, i sensi si ottunderanno […] la televisione non ucciderà soltanto il cinematografo e il teatro, è sulla via di annullare quelli che sono stati finora i rapporti sociali e familiari, come già oggi la radio e il cinematografo hanno ucciso la conversazione. Proclamano i costruttori di apparecchi che la televisione ha ricostituito il focolare domestico, le famigliole non hanno più bisogno di uscire e disperdersi per questo o quello spettacolo perché hanno tutto in casa, si godono in pigiama e pantofole il cinema, l’incontro di pugilato, la lezione politica, il pettegolezzo sociale, la dimostrazione dei pregi di questo o quell’aggeggio domestico che prima andavano a farsi fare nel grande emporio (ve l’ho detto, gli americani hanno una mania per queste cose e gli piace l’eloquenza della pubblicità), la biancheria intima della diva, la sfilata sulla quinta avenue.

Imbottire i crani. Ma verrà tempo in cui tutti vorranno stare a casa per vedere la sfilata e nessuno vorrà scomodarsi a sfilare; occorrerà stabilire turni, dovrà intervenire la polizia per decidere chi debba dare spettacolo in piazza e chi possa comodamente assistervi».

 

In un crescendo inarrestabile non esente da ironico sarcasmo, Monelli ci pone di fronte ai danni che la televisione potrebbe procurare e che probabilmente procurerà nei decenni a venire:

«Ognuno di quei focolari domestici sarà chiuso e ostile agli estranei; non si cercheranno più contatti con gli amici ai quali piacciono programmi diversi, si accetterà a malincuore un invito a casa d’altri perché si sa che hanno altri gusti televisivi. Ci si duole in America che i bambini non vogliono più uscire per giocare all’aperto; passano il pomeriggio immobili davanti alla cassettina delle ombre e dei suoni, quasi ipnotizzati da visioni grossolane, da precetti ovvii, da verità pubblicitarie, da slogans politici, da battute umoristiche, da ritmi ossessionanti, senza scelta, senza discriminazione di genitori o di maestri. Perché questo è l’aspetto più deprecabile della televisione; subdolo strumento di dittatura nel campo dello spirito e della coscienza, tanto più inavvertita quanto più le immagini e i suoni la fanno seducente».

Resta da capire se i toni apocalittici di Monelli siano stati ridimensionati dalla storia o se semplicemente la nostra generazione si sia “evoluta”, assimilando e neutralizzando la televisione e poi via via le altre diaboliche meraviglie tecnologiche. A leggere alcuni passaggi sembrano veramente scritti ieri. Quanto si è discusso e si discute tuttora sulla capacità di plagio della televisione nelle scelte politiche? Quanto si continua a dissertare su conflitti d’interesse e controllo dell’informazione?

«La televisione sta sostituendo ogni altra fonte di divertimento, di curiosità, di istruzione, o per lo meno sottrae gran tempo alle ore che possono essere destinate ad una qualsiasi attività intellettuale o artistica, è chiaro che quella oligarchia di direttori, coi loro gusti discutibili, le loro simpatie politiche, gli interessi a cui sono legati, finisce con l’«imbottire i crani», come si diceva una volta, e con molta maggiore efficacia di quando nacque quella frase, quando l’«imbottitura» era fatta solo con discorsi in piazza, e senza altoparlanti. In America, almeno, le società trasmittenti sono molte, ed in concorrenza fra loro. Ma in Italia, secondo il nostro sistema — eravamo il popolo più individualista d’Europa, oggi siamo più di ogni altro schiavi dei monopoli — avremo un solo ente trasmittente, i programmi saranno nell’arbitrio di quel solo ente, eventuali visioni di società straniere dovranno passare al suo vaglio. Se la televisione prenderà in Italia la voga che ha preso in America, se davvero anche da noi diverrà l’unica o quasi unica fonte di passatempo, di volgarizzazione, di diffusione di concetti politici, di gusti letterari ed artistici, di celebrazione di questo o quel principio o di questo o quell’individuo, questa sola fonte sarà manipolata, dosata, conciata secondo la scelta, l’estro, il capriccio, i preconcetti, le storture di poche persone. Paurosa eventualità, siano anche quelle poche persone le più intelligenti, le più eclettiche, le più liberali di tutta la nazione».

 

Fin qui gli allarmi, non tutti fuori luogo, di Paolo Monelli che, lo ricordo ancora, scriveva queste parole nei primissimi anni ‘50. Vent’anni dopo sarà Pier Paolo Pasolini ad ereditarne il testimone. Quasi impossibile non cogliere similitudini con i concetti espressi da Monelli, negli articoli che lo scrittore friulano dedicò al fenomeno televisione. Sul Corriere della Sera del 9 dicembre 1973 nell’articolo “Sfida ai dirigenti della televisione” ad esempio scriveva:

«Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria) […] La responsabilità della televisione […] è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. È il luogo dove si concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado nemmeno di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie, appunto, la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre».

 

In un altro articolo pubblicato su Il mondo il 28 agosto 1975, appena due mesi prima della sua tragica fine, avvenuta la notte tra il 1° e il 2 novembre 1975 all’idroscalo di Ostia, Pasolini indicherà quelli che a suo avviso sono i responsabili di tutto ciò e si spingerà ad accusare i vertici della Democrazia cristiana fin dal titolo “Bisognerebbe processare i gerarchi Dc” per «responsabilità dell’esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass-media, corresponsabilità della stupidità delittuosa della televisione».

Questa, dunque, la visione di due raffinati pensatori degli anni ’50 e dei primi anni ’70 – chissà cosa scriverebbero oggi Monelli e Pasolini di fronte a ben altre cassettine di ombre e di suoni

Ma nel frattempo, tutti gli altri, cioè noi comuni mortali, subivamo, quasi sempre inconsapevolmente, il potere ipnotizzante della televisione. Si sa, l’uomo in tutte le situazioni, anche in quelle meno gradevoli, riesce quasi sempre a trovare una ragione per resistere. E noi ci adattammo facilmente, forse proprio grazie al fascino suadente di quel mezzo che era tutt’altro che sgradevole.

 

Comunque, come in tutte le cose, non va visto solo il lato negativo. Ci sono da valutare anche i vantaggi eventuali. I nuovi mezzi (tra cui la stessa gloriosa televisione che sembra comunque reggere ancora oggi l’agguerrita concorrenza), ci permettono di recuperare e di riassaporare in qualsiasi momento e luogo prelibatezze altrimenti perdute. Ce lo ricorda egregiamente Philippe Daverio:

«Internet ha sancito una trasformazione delle abitudini che la recente modernità aveva già iniziato a plasmare […] Con la modernità della comunicazione per la prima volta nella storia dell’umanità possiamo ascoltare su dischi perfettamente riproducibili il defunto Toscanini o il suo collega Von Karajan che dirigono un’orchestra. Al cinema guardiamo come nostri contemporanei vivi Alberto Sordi e Marlon Brando, defunti. Rimane modello dell’erotismo adolescenziale la Marilyn suicida. Correndo fra i file di Youtube Charlie Chaplin dialoga quotidianamente con milioni di persone […] Il mondo che viviamo è pieno di migliaia di referenti, altri esseri umani, ma la maggior parte di loro, pur essendo del nostro mondo, non è più nel nostro mondo. Questo per la prima volta da quando siamo in questo nostro mondo. Il passato non è sedimento, s’è fatto contemporaneo» (Philippe Daverio, Più sale in zucca, Quotidiano nazionale, 1 novembre 2012).

 

Ecco. È proprio questo lo spirito con cui io guardo il fenomeno televisione (compresi ovviamente i suoi discendenti). E poi, con tutta la buona volontà, non ho un ricordo negativo di dipendenza dalla tv. A cena la televisione accesa non inibiva il dialogo. Riuscivamo comunque a parlare tra di noi, a raccontarci l’un l’altro quanto ci era successo durante il giorno. La televisione, a volte fungeva semplicemente da sottofondo, fu veramente più focolare che elemento di distrazione-separazione. Così come le volute di una fiamma o lo schiocco della legna ardente non distoglievano dalle discussioni, la televisione della mia cucina non ci toglieva il gusto di stare insieme, di guardarci negli occhi e di ascoltarci. Il ruolo della televisione fu semplicemente di mediazione, e non tolse nulla all’intensità del rapporto che ci legava, ma anzi le immagini che allora scorrevano sullo schermo, oggi riesumate al computer o dove altro si vuole, fungono da scintilla per risvegliare il ricordo e completarlo. La televisione fu prima di tutto elemento di compagnia, portando calore dove peraltro già ce n’era in abbondanza, facendoci sentire però meno soli ed isolati. Quella luce bluastra, il ronzio appena percettibile, le voci garbate delle annunciatrici, riempivano la cucina di serenità, spazzando via dagli angoli ogni eventuale traccia di tristezza, ammesso che ci fosse. Ho sempre vivo il ricordo di quando bambino, una manciata di anni,  mi portavano a trovare una lontana prozia. In quella sua cucina priva di televisione, si sentivano solo i rintocchi dei secondi di una vecchia sveglia. Un ritmo angosciante che mi metteva i brividi. La televisione ci ha reso lieve lo scorrere inesorabile del tempo.

 

E così, è proprio la televisione di quei giorni, mi riferisco alla metà degli anni settanta, uno dei ricordi più netti che mi permette di focalizzare e di recuperare quegli attimi e quei momenti indimenticabili delle nostre cene. La Rai, intorno alle 19, trasmetteva normalmente serie di telefilm per la famiglia. Non sempre a quell’ora, soprattutto nelle grandi città, le famiglie erano ancora riunite, ma come ho detto per noi invece era proprio così. E quell’ora di intrattenimento leggero, di rilassamento tutti intorno alla tavola, s’incrociò armoniosamente con l’arte. Anzi , fece sì che io e i miei familiari, insieme, potessimo condividere momenti d’arte che altrimenti mai avremmo potuto vivere. Infatti, come ci ha mirabilmente appena ricordato Daverio, fu proprio la televisione, strumento di modernità, a portarci in casa per la prima volta Charlie Chaplin e i suoi capolavori, le comiche di Stanlio & Ollio, i musical di Fred Astaire & Ginger Rogers e le altre meraviglie del cinema muto e non, che i nostri genitori, ma solo quelli più fortunati, avevano potuto apprezzare solo al cinematografo anni e anni prima. Ora la televisione, proprio lei, ce li portava nientemeno che in salotto e tutti insieme potevamo condividerne il piacere.

 

È per questo che non riesco a scindere il ricordo di quei momenti dai protagonisti dei film che passavano in tv, durante quei tardi pomeriggi, nel momento languido del meritato riposo. E rivedendo frammenti di quelle scene, rivedo anche i miei famigliari e nello stesso tempo flash di quanto accadeva nel mondo intorno a noi, in quei precisi istanti, come se il passato si facesse davvero contemporaneo.

 

Così ecco Stan Laurel e Oliver Hardy al rientro dal congresso annuale a Chicago dei Figli del Deserto e contemporaneamente sento le risate di mio zio che in quell’estate del 1976 accompagnavo in officina (una carrozzeria) e con gli altri ragazzi di bottega s’intonava in coro Honolulu Baby [1].

Quello stesso giorno in cui la tv trasmise quel film, era il 14 luglio 1976, Bettino Craxi venne nominato segretario nazionale del PSI a grande maggioranza. Claudio Martelli, suo delfino divenne vice segretario. Il sabato precedente, il 10 luglio, a Roma era stato ucciso con una raffica di mitra da un commando fascista guidato da Pierluigi Concutelli il giudice Vittorio Occorsio che indagava sui rapporti fra terrorismo fascista e massoneria. Quello stesso tragico sabato, nello stabilimento chimico dell’ICMESA a Seveso, una valvola di sicurezza del reattore A-101 esplose provocando la fuoriuscita di alcuni chili di diossina nebulizzata. Fu un disastro ambientale senza precedenti. Settimane dopo, all’officina dove lavoravo con lo zio, giunse un furgone incidentato il cui proprietario era proprio di Seveso. Ci chiedemmo tutti se v’era anche lì nel cassone della diossina, ma noi, a quel tempo, si raffreddavano le lamiere in saldatura con stracci di amianto.

 

E ancora rivedo, avvolti in uno scatenato tip tap, Ginger & Fred, e contemporaneamente vedo gli occhi ammirati di mia madre seguirne le incredibili evoluzioni. Anche a scuola, la mattina successiva, coi miei compagni di Liceo, ci trovavamo a parlare di quanto fossero strepitosi quei vecchi, così ben curati musical e quanto fossero intriganti quelle storielle leggere a lieto fine che facevano da sottofondo ai balletti e alle grandiose coreografie americane anni ‘30 [2].

 

Il ciclo, intitolato “L’epoca d’oro del musical”, fu un successo e molti commentatori lamentarono la collocazione, in realtà per me e per la mia famiglia così azzeccata, che escludeva milioni di telespettatori:

«In ogni caso un documento da non perdere [si faceva riferimento ai film Voglio danzare con te (1937), andato in onda il 12 e il 13 dicembre e Seguendo la flotta (1936) , andato in onda il 20 e 21 dicembre 1974]. E invece l’hanno perso in molti. Anzi in moltissimi perché alle 19, specie in questi giorni, nove spettatori su dieci sono ancora fuori casa o sono occupati in faccende pressanti in vista del Natale. Qualunque sia il motivo, è una collocazione assurda: ai mitici Ginger Rogers e Fred Astaire la Tv ha riservato la piccola platea delle piccole occasioni » (Ugo Buzzolan , La Stampa, 20 dicembre 1974).

 

Il commentatore allora lanciava un appello accorato:

«Ancora una cosa: se non lavorate, se non avete niente da fare, se non siete in giro per commissioni, ricordatevi che alle 19 c’è sul “secondo” L’epoca d’oro del musical americano: aprite la tv a quell’ora, e finalmente la sventurata e semi-clandestina rassegna avrà un po’ di pubblico» (Ugo Buzzolan, La Stampa, 24 dicembre 1974).

 

In quel mese di dicembre del 1974, andò in onda in Gran Bretagna l’ultima puntata del Monty Python’s Flying Circus (il 5 dicembre); a Roma quello stesso giorno morì il regista Pietro Germi; negli Usa il 15 dicembre uscì il film di Mel Brooks Frankenstein Junior (in Italia uscirà nelle sale solo il 22 agosto del 1975).

Gabriele Paradisi

 

Note

[1] Il film I Figli del deserto, del 1933, per la regia di William A. Seiter, venne trasmesso sul 1° canale Rai alle 18.50 del 14 luglio 1976.

[2] La trasmissione dedicata ai vecchi film musicali con Ginger Rogers e Fred Astaire, ma non solo, film prodotti negli anni ’30, s’intitolava “L’epoca d’oro del musical” (a cura di Annita Triantafyllidou e Anna Maria Denza; consulente il critico Giulio Cesare Castello) e andò in onda nel tardo autunno del 1974, dalle 19,00 circa alle 20,00, sul Secondo Canale RAI.

 



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