Storie di vita. Kenya, in vista del Kilimanjaro


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safari-kenyaCome sempre, il mio lavoro mi portò in un posto nuovo, che desideravo visitare da tempo.

Arrivai di sera a Nairobi, dopo aver fatto tappa al Cairo, ero un poco emozionato a calcare il suolo di quella bella città, quasi a 1700 m. di altitudine, ma sull’Equatore, con un clima molto dolce.

Il cliente, di origine indiana, mi stava aspettando all’aeroporto e mi accompagnò all’albergo, che porta il nome di Stanley, il celebre giornalista/esploratore che ritrovò l’esploratore Dr. Livingstone e si dice che quando lo incontrò pronunciò la celebre frase: “Dr.Livingstone, I presume!”.

Quella notte, pur giacendo su un letto a cui non ero ancora abituato, dormii come un sasso. Al mattino, dopo un’abbondante colazione all’inglese, andai con il cliente alla fabbrica, che era situata fuori città, questo mi permise di attraversare il centro e il cliente, buona guida, mi mostrava i posti più importanti. Mi colpì il bar frequentato da Hemingway, il mio idolo, vidi anche l’albergo dove dormiva Winston Churchill e i posti frequentati da tanti personaggi che avevano popolato i titoli dei giornali nella mia giovinezza. Mi colpirono anche i templi delle diverse confessioni situati a poca distanza l’uno dall’altro. Segno di grande tolleranza. Ci voleva proprio, dopo la sanguinosa guerriglia dei Mau-Mau contro gli inglesi per l’indipendenza.

L’azienda era grande, con moltissimo personale, secondo il sistema indiano che preferiva la manodopera alle macchine. Una breve visita per darmi un’idea degli spazi disponibili e poi ci trasferimmo nella sala riunioni, che sarebbe stata la nostra sede di lavoro.

La sala era affollata: il cliente mi presentò i due fratelli anziani, poi il direttore tecnico, il responsabile della manutenzione, quello che sarebbe stato il diretto responsabile del funzionamento dell’impianto di specchi. Vicino al mio posto c’era una poltroncina vuota, con un cabaret pieno di tazzine di caffè caldo arrivò una splendida ragazza nera che il cliente mi presentò come segretaria e figlia adottiva. Lei si sarebbe occupata di me durante la mia permanenza.

Fu una giornata molto lunga, per pranzo arrivò un carico di tramezzini, si continuò fino a sera e alla fine ritornai in albergo accompagnato dalla ragazza che si chiamava Mchumba, che in swahili significa “Tesoro”.

Chiacchierammo per tutta la cena e anche dopo, era di stirpe Masai ed era rimasta orfana e trasferita in un orfanotrofio, un giorno il cliente era andato per cambiare un vetro, l’aveva vista, le aveva offerto una caramella, poi, il giorno dopo, era ritornato con la moglie che si era messa a parlare con lei, una donna molto dolce e gentile; la coppia andò a parlare con la direzione e venne accordata l’adozione. Mi disse che voleva molto bene ai genitori adottivi che l’avevano fatta studiare prima in una scuola delle missioni inglesi e poi per quattro anni in Inghilterra al college. Indubbiamente parlava un inglese perfetto. Era molto bella, i Masai provengono dalla regione del Nilo, la stessa regione della Nubia, famosa per la bellezza degli abitanti che avevo conosciuto in Egitto. Mentre Mchumba parlava la osservavo: i suoi bianchi denti formavano un contrasto molto affascinante con il colore della pelle scura e lucida. Aveva occhi nerissimi e lucenti, era truccata in modo molto leggero, elegante.

Era l’ora di andare a dormire, l’accompagnai alla macchina e la ringraziai per la serata stringendole la mano, lei mi si avvicinò e mi scoccò un bacio sulla gota, dicendomi che sarebbe venuta a prelevarmi la mattina successiva.

Il mattino successivo mi venne a prelevare con una Land Rover, mi disse che era la sua macchina personale perché amava la natura e ogni momento libero lo passava a studiare gli animali, che erano la sua passione segreta.

Passai altri due giorni come il primo, lavorando ore e ore e cenando la sera con Mchumba. Mi avvisarono che secondo la tradizione britannica avrebbero chiuso la fabbrica per il fine settimana ma che Mchumba aveva avuto una buona idea e mi avrebbe portato a vedere gli animali nel parco nazionale di Amboseli. Rimasi estasiato alla notizia, lo conoscevo per fama.

Al sabato mattina partimmo molto presto, subito dopo l’alba, Mchumba aveva una guida molto sicura, e mi spiegò il programma: aveva prenotato un “cottage” con due stanze nell’Amboseli National Park, che era una riserva vicina al monte Kilimanjaro, che però si trovava in Tanzania.

Il percorso era lungo, dovevamo attraversare prima lo “Tsavo West National Park” che era splendido, vedevamo davanti a noi molti animali, ci dovemmo fermare per far attraversare la strada a un gruppo di elefanti con i piccoli. Mi sembrava di essere al “Kruger Park” in Sud Africa che conoscevo molto bene.

Finalmente arrivammo a destinazione, il “cottage” era molto bello, isolato dagli altri, aveva una veranda che si affacciava su un lungo lago pieno di uccelli. Due stanze con ingressi separati ma con una porta comunicante.

Eravamo stanchi del viaggio, ma entrambi eravamo eccitati alla vista di quello splendido spettacolo. Decidemmo di scendere in macchina al lago, ma prima passammo all’ufficio del Parco, notai che Mchumba era molto conosciuta, ci diedero una carabina per sicurezza e scendemmo al lago.

Ci avvicinammo piano, a piedi, migliaia e migliaia di uccelli, riconobbi solo i fenicotteri rosa, per il colore, non sapevo identificare gli altri. Trovammo posto a sedere su un tronco, assicurandoci che non ci fossero serpenti o scorpioni e restammo a guardare.

Quando il cielo cominciò a oscurarsi, tornammo al cottage; ci sedemmo vicini su un dondolo in veranda ad ammirare il tramonto, lo spettacolo del sole che illumina da dietro il Kilimanjiaro, con la cima imbiancata, è unico al mondo. Anche gli animali tacquero in quel momento magico, quasi religioso, Mchumba mi prese la mano e intrecciò le dita alle mie e si appoggiò con la testa alla mia spalla. Non mi sorpresi, desideravo farlo anch’io ma non osavo, certi spettacoli vanno gustati in coppia.

Restammo così per una mezz’oretta, senza pronunciare parola, ma lo stomaco brontolava per la fame, ci alzammo a malincuore e ci dirigemmo verso il ristorante, che distava un centinaio di metri. Mchumba mi consigliò di prendere il fucile, era la prima volta che andavo a cena con il fucile, solo una volta in Israele una ragazza con cui avevo appuntamento al ristorante, si presentò armata di Uzi, era anche in divisa perché era militare.

Dopo una lauta cena, ritornammo al nostro alloggio, il cielo era pieno di stelle che sembravano più grandi, essendo all’Equatore e riuscii anche a identificare la Croce del Sud, l’aria era piena di suoni inusuali, parlavamo poco, ascoltavamo attentamente, riconobbi poco distante la risata di una jena. Il nostro “cottage” era all’estremità del campo che non aveva recinzione, c’era una luce esterna che avevamo spento per non attirare gli insetti, per cui qualsiasi animale feroce avrebbe potuto accedere alla veranda, questo era il motivo della nostra scarsa loquacità.

Venne l’ora di ritirarsi, dopo un abbraccio entrammo nelle rispettive stanze e sbarrammo le porte, accesi la luce sulla veranda e mi portai la carabina vicino al letto. Avevo acquistato un libro all’albergo di Nairobi che elencava tutta la fauna del Kenya, era piacevole sfogliarlo, la notte era rumorosa, udii il ruggito di un leone non lontano che si avvicinava.

Si spalancò la porta comunicante, stavo per afferrare la carabina quando entrò Mchumba in pigiama, mi chiese scusa, aveva paura a stare sola, s’infilò nel mio letto, tremava e m’abbracciò stretto.

Naturalmente il mio corpo fu subito risvegliato dal calore di quel corpo attaccato a me, i suoi seni turgidi mi premevano sul petto e lei cominciò a strofinare le pelvi contro di me con un movimento rotatorio che mi faceva impazzire.

Non ci furono discorsi, era l’Africa selvaggia che colpiva ancora. Si alzò e si tolse il pigiama, aveva un corpo slanciato, perfetto come una statua di Michelangelo, mi aiutò a togliere il mio e si sdraiò vicino a me, cominciando ad accarezzarmi. Non avevo mai avuto il piacere di accarezzare la pelle vellutata di una ragazza di colore, volle mettersi a cavallo su di me e qui venne la sorpresa: Mchumba aveva un controllo totale dei muscoli vaginali, senza muovere il corpo riusciva a farmi sussultare, fu un’esperienza bellissima.

Ci addormentammo abbracciati e così ci risvegliammo all’alba. Dopo una lauta colazione, con una piantina e una radio fornitaci dai rangers, partimmo alla ventura. Sono molto osservatore e mi accorsi da certi sorrisetti che il personale aveva capito tutto, forse per colpa nostra che giravamo tenendoci per mano ed ebbi la conferma la sera, quando ci ritirammo: avevano rifatto i nostri letti, ma il pigiama di Mchumba era sul mio letto, di fianco al mio….

La cucina ci aveva fornito dei panini e avevamo qualche bottiglia d’acqua minerale, passammo una giornata meravigliosa in giro per il parco, avvistammo moltissimi animali e un rinoceronte accennò a correrci dietro. Mchumba era dolcissima, non immaginavo di poterci stare così bene insieme.

Era bellissimo fermarci con la macchina a osservare la natura nel suo splendore incontaminato.

Cercammo inutilmente di vedere i leoni, giravamo qua e là senza meta, chiesi a Mchumba di lasciarli cercare a me, mi prese in giro, come avrei potuto saperne più di lei, una Masai discendente da una stirpe di guerrieri e cacciatori? Presi in mano il volante, la pianura e le valli erano colpite dalla siccità e dal terreno vulcanico, mi guardai intorno e salii con la macchina in cima a una collinetta. Mi guardai intorno, in fondo a una valletta, non lontana, crescevano palmizi abbastanza folti, pensai che se c’erano palme c’era acqua e se c’era acqua c’erano i leoni. Espressi questo ragionamento alla mia compagna di viaggio, mi guardò e con un sorriso splendente assentì.

Ci volle mezz’ora per raggiungere quel boschetto, c’era un laghetto e, meraviglia, sei leoni che facevano la siesta. Poco distante la carcassa di una zebra divorata. Mi fermai a distanza di sicurezza e li osservammo e fummo osservati. Dopo pochi minuti pensai di andar via, era inutile disturbarli.

Quella sera, a cena, Mchumba era molto eccitata e raccontò a tutti che io ero un grande cacciatore in incognito e che avevo trovato i leoni quando lei, una Masai, non li aveva trovati. Il personale del ristorante ci guardava con segni di assenso con la testa.

Quella notte, fu l’ultima notte insieme, a Nairobi avrebbe dovuto dormire in casa, dormimmo molto poco, ma lei riuscì a inocularmi il virus del “mal d’Africa” che mi perdura tutt’ora.

Il viaggio di ritorno fu bello come quello di andata, ma una latente tristezza ci stava colpendo. Mi accompagnò nella stanza in albergo e volle darmi l’ultimo bacio e l’ultimo abbraccio.

Non sapevo se sarei tornato ed entrambi eravamo contrari ad affrontare il rischio di generare un figlio mulatto, fu un’avventura, molto dolce e molto bella, che ha dimostrato, almeno a me, che popoli di differenti etnie e culture, possono incontrarsi in una cosa: nell’amore.

Dopo due giorni il lavoro era finito, andai all’aeroporto, Mchumba mi accompagnò, quando ci abbracciammo, mi accorsi che i suoi splendenti occhi nerissimi erano colmi di lacrime.

Mi salutò con: “Mungu kuwa na wewe” (Che Dio ti accompagni)…..

Non tornai più in Kenia.



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