SplashTv. Nulla da vedere per eccesso di gusto


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Cosa spinge una Giada di Orvieto nella puntata di Veline di lunedì a flettersi in mille capriole, un po’ circensi e malriuscite, a emulare spezzoni di danza del ventre versione Kalì del Tufello, a rigirarsi sul palcoscenico come un frullatore Moulinex senza particolare grazia, lei che aveva cominciato l’intervistina di presentazione dicendo – con una certa solennità – di essere interessata al diritto e alle problematiche degli istituti penitenziari? Lo ammette lei stessa: “Cerco un lavoro, e magari questa può essere l’occasione per trovarlo”. Disperati già a vent’anni, in attesa di una laurea-naufragio, e col teatrino dei pupi televisivi che sta lì ad ammiccare, a indicare una strada qualsivoglia, basta ancheggiare, simpatizzare col presentatore, vincere la timidezza di fronte al pubblico, raccogliere applausi, suggestionare una giuria e chissà, magari ci scappa una finale e un contratto con Mediaset per quattro anni, fra muti balletti e appaganti belletti. Va meglio a una Eleonora, nella stessa manche. Laureata in Scienze Motorie, ma senza lavoro, si becca prima una battutina di Greggio che gioca con “motorio” e “mobilità”, e poi anch’ella dichiara fame di posto, piuttosto che un posto per la fama. Alla fine vincerà. Col volto orante di speranza. L’acquario televisivo è tutto qua. Un lago di lacrime sorridenti, dai mille affluenti, che si dilata, si allunga, si irradia a destra e a manca, in attesa di un mare in cui sfociare, dopo aver infangato le campagne circostanti. Un mare di futuro e libertà che odora da lontano senza mai rendersi pescoso.

E allora quale migliore metafora idrico-mediatica di Aquarius, senza la c, programma di punta di GXT, canale del bouquet Sky particolarmente incline a format adrenalinici e giovanilisti? Aquarius è come la parola detta: un immenso delfinario di gnocche che “nuotano”, si agitano, ballano flessuose, guardano ammiccanti, esibiscono con dovizia la loro bellezza, e tutto questo davanti alle telecamere piazzate ai bordi di un dancing un po’ retrò che spara musica a palla. E loro danzano feline e conturbanti, in un fuoco di fila di tacchi vertiginosi, minigonne mozzafiato, bretelline che scivolano galeotte, zoomate dal basso, inquadrature di ombelichi, piercing, laccetti sulle caviglie, reggiseni che scoppiano, labbrone sempre sorridenti e fianchi da capogiro. Un belvedere, senz’altro, sconsigliato a tachicardici e multiorgasmici, su cui chiedersi “perché?” è doveroso anche per il telespettatore dotato di intelligenza al minimo salariale. Non ci sono parole, testi, conduttori, presentazioni, ospiti o giochini. E’ lo show del sesso telegenico. Pura radioestesia dei corpi. Ginecologia distillata in pixel. Non c’è scrittura di alcunché nonostante il programma sia “firmato” (si fa per dire) dal noto Giovanni Benincasa. E’ la tv dell’oscena goduria, dove non c’è nulla da vedere per eccesso di gusto, stimoli erotici e invidie carnali. La tv dell’”eccomi qua, ci sono anche io”. Vitrea, trasparente, da mammifere senza pinne cui dare in pasto qualche plancton di notorietà. Perché ormai è l’afflusso incontrollato ed emorragico di immagini ad eseguire i cerimoniali quotidiani di una vera e propria fascinazione catodica. E’ l’iper-mediazione tecnologica a prosciugare il senso all’immagine, a spogliarla di ogni profondità quanto più ne illumina la superficie rendendola convertibile e intercambiabile. Umberto Galimberti in Le cose dell’amore dice: “Se il nostro è uno sguardo pietrificato e avido, l’immagine è parola rubata e restituita”. Ancora più icastico Giorgio Agamben in La comunità che viene: “L’economia mercantile accede a uno statuto di sovranità assoluta e irresponsabile sull’intera vita sociale. Dopo aver falsificato l’insieme della produzione, essa può ora manipolare la percezione collettiva e impadronirsi della memoria e della comunicazione sociale, per trasformarsi in un’unica merce spettacolare, in cui tutto può essere messo in discussione, tranne lo spettacolo stesso, che, in sé, non dice altro che: ‘ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. E’ il “delitto perfetto” della realtà, per usare la famosa metafora di un omonimo libro di Jean Baudrillard che, in questa perenne commutazione e circolazione di segni impazziti, in questo “culmine” della realtà depurata e cloroformizzata da ogni negatività immanente, vede, da un lato, un potenziamento, una promozione incessante del tutto col tutto e, dall’altro, un esaurimento, un offuscamento, un’estenuazione di ciò che un tempo portava a struggenti comprensioni, affabulazioni travolgenti, spietate rivoluzioni, solari sovvertimenti dell’ordine costituito. L’”illusione radicale”, come egli la definisce, è ciò che ancora e sempre ci apparterrà come destino, è ciò che ci svela come esseri che creano e che potrebbe ancora far tremare la “realtà” così come ce la propalano quotidianamente i media, i mercati, le reti, gli schermi, ma a patto di recuperare il volto “violento dell’alterità”, di passare alla controffensiva, di rompere l’incantesimo degli specchi i cui abitanti, in un racconto di Borges, vengono imprigionati nelle tremolanti effigi del vetro con “il compito di ripetere, come in una specie di sogno, tutti gli atti degli uomini”. Al regime metallico della somiglianza e del medesimo, va sostituito, dicono entrambi, l’ultimo sacrificio del pensiero che crede nelle differenze e nell’ironia cosmica del Nulla che ritorna.

Contro una tv già dentro di noi, oltre ogni sguardo. Qualcuno prima o poi farà toc toc sullo schermo e noi apriremo l’ultimo varco. Magari a una di Aquarius.

Carmine Castoro

 



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