SplashTv. Scherzi a parte..


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L’Italia non si salverà mai. Di questo passo, mai. E non è questione di soldi e di banche, di tasse e sacrifici verso i quali il popolo dei “normali” cittadini sta mostrando disponibilità ai limiti dell’eroico. Il male cova silente. Nelle parole, nelle scelte, nelle retoriche di regime, nel parassitismo antidemocratico merlettato di saggezza “tecnica” e inossidabili opportunismi. Il Male, quello vero, maiuscolo, tentacolare e satanico, è nel linguaggio comatoso, nei significati spappolati, nella vergogna che latita sulle facce su cui dovrebbe avere costante domicilio, nelle logiche bruciate che non ci fanno più avvertire nemmeno lontanamente il sapore dello stare insieme, la fragranza – come quella del pane – di un sapere condiviso, di un’ovvietà goduta e non farsesca o suicida. Berlusconi si ricandiderà nel 2013. In quale categoria mettiamo questo orrore dell’antipolitica, questa sì tutta “anti”? Cos’è, più un teatrino dei pupi o una discarica di letame, o il cencelli dell’impunità, o “scherzi a parte”, o un mix di incubo e realtà da poveri fantasmi quali tutti siamo, imprigionati nel “mondo degli specchi” per parafrasare un famoso racconto di Borges? E la Bindi che ridacchia a commento della notizia parlando di “ritorno in campo” come se alludesse a campi di patate o di fiori appena innaffiati? Quante altre sfumature di grigio devono inventarsi gli autori degli Sgommati per disegnare questi sciancati pupazzi della sinistra che fanno le rivoluzioni culturali con lo stesso brivido con cui infornano una torta per i nipotini?

Problemi della politica, si dirà. Di una politica ingottata, corrotta, deviata. E invece no. Il collasso della parola e lo “scivolamento” dei significati in un chiave collosa, appiccicaticcia, colpisce e cristallizza anche la cronaca, il mondo dei “fatti”.

In un servizio del Tg3 regionale si parla di Circe, il vortice che porta pioggia e vento dal nord Europa e refrigerio alle assolatissime lande del sud, e subito le immagini chiamano in causa il personaggio della maga di odissea memoria, con tanto di riferimenti mitologici e attoriali relativi a chi ne interpretò il ruolo al pari di Ulisse e dei suoi naufraghi negli adattamenti televisivi dell’epoca. Stesso dicasi per il massacro nel cinema di Denver. Non vedevano l’ora i poveri straccioni di giornalisti che affollano le redazioni di quotidiani e televisioni di titolare “La strage di Batman”, felici, da furfanti dell’informazione più galeotta quali sono, di fare il colpo a effetto, lo scoop simil-reale, la cronachetta da un mondo meta’ fittizio, meta’ feroce e disperato per davvero. La virtualizzazione dell’inconsulto, la spettacolarizzazione del tragico, la banalizzazione dell’umano troppo umano, finanche la garrula e autoreferenziale fumettizzazione del sanguinario e dell’omicidiario, sono elementi ormai tristemente consustanziali a un linguaggio del conformismo e della disinformazione di massa che dell’antropologico in senso lato non sa proprio che farsene. Almeno fintanto che ci sarà una leggenda cui attingere, un passo fiabesco che disinneschi la realtà, o un supereroe deviato cui assimilare nell’immaginario collettivo un disgraziato folle di cui non si indagano minimamente gesti e vissuti, e allora giù con tanti bei titoloni che non significano niente, ma intrattengono occhi e anime come manco i quiz e i reality sanno fare.

Nella Canzone dei rischi che si corrono scritta nel 2006, il poeta Giovanni Raboni dice: “Un’ossessione? Certo che lo è. Come potrebbe non ossessionarci la continua reiterazione degli stereotipi più osceni, l’alluvione di falsità e soprusi, la suprema pornografia dell’astuzia fatta oggetto di culto, della prepotenza fatta valore, della spudoratezza fatta icona? Andiamo a dormire pensandoci, ci svegliamo con questo fiele in bocca e c’è chi ha il coraggio di chiederci d’essere più pacati e costruttivi, d’avere più distacco e ironia…Sia detto, amici, una volta per tutte: a correre rischi non è soltanto la credibilità della nazione o l’incerta, dubitabile essenza che chiamiamo democrazia, qui in gioco c’è la storia che ci resta, il poco che manca da qui alla morte”. Versi di un grande maestro, forse, agghiacciato da qualche “tronista” in tv. Perché la verità centrata dal grande poeta italiano, ormai scomparso, è proprio questa: il rischio della libertà fa parte della nostra ontologia, del nostro essere e morire, del dare senso alla vita, non si tratta più solo di ingegnerie istituzionali o di tinteggiate ideologiche. Come sostiene il filosofo Mario Perniola, è la “futilizzazione organizzata della morte” la vera cifra estetica del mondo delle immagini e della comunicazione oggi, il suo precipitare in mero trastullo verbale. Dovremmo con gioia e fervore far brillare quella traiettoria che ci separa dal grembo materno così come dalla tomba, e invece tele-amministriamo il nostro bisogno d’oblìo circondandoci delle verità e dei “valori” tipici di un mondo rovesciato.

Carmine Castoro



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