Storie di vita. Giappone, Il Paese del Sol Levante


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ciliegi2Ero stato obbligato a rimandare per qualche anno un viaggio conoscitivo del mercato in Giappone, perché in Azienda erano convinti che avrebbero copiato le nostre macchine. In effetti un impianto era stato venduto anni prima a un grande colosso dell’industria giapponese, l’impianto era stato poi copiato e il falso venduto a Taiwan, dove lo trovai casualmente qualche anno dopo, ma questa è un’altra  storia.

Durante una visita nella Corea del Sud, venni a sapere che c’erano interessanti richieste di macchine in Giappone; dopo uno scambio di idee per telefono con il Principale, ottenni l’autorizzazione ad andare.

A Tokyo avrei preso contatti con una grande azienda che ci aveva scritto e visitato offrendosi come agenti. Furono gentili a prenotarmi un albergo e a venirmi a prendere all’aeroporto Narita.

Rimasi subito molto colpito dai piccoli e dai grandi dettagli: gli inchini ad ogni incontro, il rispetto per le persone più anziane, gli autisti con guanti bianchi e mascherina al viso, il sorriso dolce delle donne e il tono di voce che sembrava un latrato, degli uomini di grado superiore con gli inferiori.

Poiché era tarda mattinata, mi accompagnarono in una grande sala riunioni all’ultimo piano dell’alto grattacielo di proprietà dell’azienda, dove il Presidente, i dirigenti e lo staff che avrebbe lavorato con noi mi aspettavano. Gli inchini si sprecarono!

Dopo un’oretta di convenevoli, ebbi l’onore di essere invitato a pranzo dal Presidente, dal Capo Divisione e dal funzionario che mi avrebbe fatto da “chaperon” durante la mia permanenza.

Avevo assaggiato spesso la cucina giapponese a Hong Kong e in Corea, mi piaceva e quando dissero che mi avrebbero portato in un ristorante tipico, non frequentato da turisti, ne fui felice.

Un classico ristorante “sushi”, con sgabelli intorno al banco dove si mangiava; andò tutto bene finché non mi presentarono un piatto che conteneva un pesce, simile a un rombo, di colore rossastro, tagliato a fettine sottili ma ricomposto. Con le bacchette cercai

di prenderne una fettina, ma il pesce saltò, era ancora vivo! Quasi mi spaventai, mi spiegarono che quel ristorante era famoso per l’arte che mostravano nel preparare i piatti; sarà arte, non lo metto in dubbio, ma mangiare un animale vivo dopo essere stato torturato, non mi piaceva troppo. Mi è capitato di mangiare animali vivi, soprattutto molluschi, ma prima d’infilarli in bocca ho sempre provveduto a non farli soffrire.

Il mio albergo, un quattro stelle, vicino alla stazione centrale delle ferrovie, aveva la camera lunga circa quattro metri e larga due, il letto era sistemato nel senso della larghezza, sotto la finestra che non si apriva e quando lo provai, mi accorsi che non potevo stendere le gambe, era corto, ma posando i piedi in alto, sul davanzale, ci riuscivo. Il bagno consisteva in una grossa conchiglia di plastica fusa, contenente i servizi igienici e la doccia, a cui si accedeva da una stretta porta nella parete, sulla porta c’era un grande cartello bilingue che avvertiva di chiudere la porta quando si faceva la doccia. In camera c’era anche un distributore automatico di bevande a moneta. Assaggiai un cappuccino in lattina, non male! Decisi di fare la doccia, prima di uscire a passeggio con la mia guida.

Dalla doccia usciva molto vapore, tanto che l’aria era irrespirabile, apersi la porta con la camera e continuai allegro a lavarmi; non passarono cinque minuti che iniziò a suonare la campana d’allarme incendio, la porta della stanza fu aperta e mi trovai davanti due pompieri dell’albergo con casco, maschera, estintore e accetta. Ero nudo come un verme e i due, visto che non c’erano incendi, iniziarono a retrocedere, inchinandosi con rispetto davanti alle mie pudende esposte. Uscendo, mi fecero segno con la mano, dal momento che con la maschera non potevano parlare, indicandomi il cartello sulla porta. Una telefonata alla portineria mi spiegò l’arcano: il vapore caldissimo, uscito dal bagno aveva fatto scattare l’impianto Sprinkler antincendio che c’era in tutte le camere, ecco perché avrei dovuto bollire nella doccia, secondo loro!

Il mio accompagnatore mi fece visitare i punti più salienti della città, che era enorme, restai a bocca aperta per il sistema toponomastico usato, non esistevano nomi di strade, praticamente gli indirizzi si capivano secondo il sistema che usiamo noi verbalmente: per esempio, la terza strada a destra dalla piazza, vicino all’edicola al secondo piano. Per un occidentale da solo è impossibile trovare un indirizzo.

Era l’ora di uscita serale dagli uffici, mi meravigliò vedere che tutti si recavano al bar, bevevano alla grande e poi, dopo un paio d’ore, si recavano a casa parecchio saturi di alcol. Il mio accompagnatore, che aveva girato il mondo, si accorse che avevo notato il fatto e cercò di spiegarmi che il lavoro negli uffici era molto duro e che la gente, quando usciva era stressata. Molti poi dovevano sorbirsi ancora un’ora di treno veloce per arrivare a casa.

Un’altra cosa che mi colpì furono le sale del “Pachinko”, un gioco che è una via di mezzo tra il “flipper” e le “slot-machines”. Queste sale erano molto affollate, provai a giocare anch’io ma, non mi dicevano nulla, conclusi che era roba da giapponesi.

La stazione ferroviaria centrale fu una sorpresa: a piani sovrapposti s’incrociavano diversi tipi di treni: i famosi “shinkansen” ossia “treni proiettile”, i treni della JR, la Japan Railways e anche i treni privati. La stazione era enorme, c’erano persino dei ristoranti.

Anni dopo, durante un lungo soggiorno a Tokyo con un collega, ogni giorno prendevamo la metropolitana  per recarci alla località dove si teneva la Fiera. Chiacchierando con l’amico, entrambi eravamo annoiati dalla meticolosità dei giapponesi, la trovavamo stressante, mi venne in mente una cosa per tastare l’imperturbabilità dei figli del Sol Levante. Dissi al collega di starmi vicino senza parlare ed entrammo nella stazione centrale. Cercai uno dei capistazione di servizio, grasso, imponente, col cappello rosso e gli dissi in inglese che avevamo un problema: tutte le indicazioni erano scritte in giapponese e purtroppo, in Italia non si studia quella lingua.

Il capostazione mi fece un inchino, a cui risposi, e mi disse che loro se ne rendevano conto per cui tutti parlavano inglese; mi indicò una finestrella dicendo che era la biglietteria, avrei dovuto andare lì e dire la destinazione, l’addetto mi avrebbe dato un biglietto di un certo colore con sopra due numeri, uno per il numero del vagone e l’altro il numero del posto a sedere. Poi seguendo la linea dello stesso colore del biglietto che partiva dalla biglietteria, avrei dovuto salire o scendere le scale e sarei arrivato su una piattaforma sempre dello stesso colore. Guardando sul marciapiedi avrei trovato il numero del vagone e avrei dovuto fermarmi lì. Sarebbe arrivato un treno dello stesso colore, sarei dovuto salire nel vagone indicato col numero scritto per terra che si sarebbe fermato davanti a me. Una volta a bordo avrei trovato il numero del mio posto a sedere.

Mi profusi in inchini di ringraziamento lodando la genialità del popolo giapponese. Il capostazione mi ringraziò quasi con alterigia e superiorità e con un altro inchino lo salutai. Dopo un paio di metri mi fermai e tornai indietro, mi chiese cosa succedeva, gli risposi che c’era un problema: ero daltonico…..

Il pover’uomo, rimase confuso, mi prese per un braccio e mi accompagnò in tutte le operazioni fino all’arrivo del treno, mi fece salire e mi salutò un’ultima volta con un inchino. In treno, finalmente il mio amico scoppiò a ridere e mi disse: “Sei un gran bastardo!”

Sempre a proposito di treni, un sera tornavo da solo da Osaha a Tokyo su uno “shinkansen”, peraltro costosissimo, e ci capitò a metà strada una nevicata epocale, mi dissero che erano 80 anni che non nevicava così, mi lamentai col capotreno dei 20 minuti di ritardo, ci rimase così male che mi venne la paura che  facesse “seppuku” o “karakiri” come diciamo in Italia.

Mi stupì come la gentilezza dei giapponesi diventasse orgoglio violento dopo aver bevuto un po’ d’alcol di troppo: una sera, a cena col mio “chaperon”, avevamo abusato del “sakè”, a me non faceva niente, ma l’amico giapponese iniziò a parlare. “Lo sai che abbiamo perso la guerra perché gli americani avevano più soldi? Il soldato giapponese è il più coraggioso di tutti, lo sapevi? I nostri piloti si buttavano con l’aereo sopra le navi per uccidere i nemici, lo sapete questo? Nessuno ne parla, dai dimmi cosa pensi!“ Risposi per cortesia,

l’uomo era eccitato e quasi gridava. “Certo che lo so, forse ti sei dimenticato che eravamo alleati, insieme alla Germania. Poi nessuno contesta il valore del soldato giapponese, solo che noi abbiamo una diversa filosofia: se moriamo, abbiamo perso la battaglia; i nostri soldati preferiscono uccidere il nemico invece che sé stessi per poter vincere.” Scattò in piedi con un urlo belluino, si mise ad agitare le bacchette per aria, se fossero state un coltello mi avrebbe assalito. Per fortuna intervenne il caposala del ristorante che lo portò in bagno per calmarlo. Quando ci lasciammo si scusò profondamente.

Mi accompagnarono a Kyoto a vedere i ciliegi in fiore, e poi in un lago di cui non ricordo il nome ai piedi del monte Fujiama, ricoperto di neve e ricordo anche, in un altro posto, uno splendido castello che era stato di proprietà di un “daimyo”.

La sera mi dilettavo in camera a vedere gli incontri di “sumo” alla TV, un tipo di lotta che mi è sempre piaciuta, anche per il suo cerimoniale.

Oltre ai “Pachinko”, mi meravigliò la passione dei giapponesi per il “karaoke”, i locali notturni e i clubs privati dove si trovavano delle “geishe” vere, non da turisti. Ebbi l’onore di essere invitato una sera a un club esclusivo con le “geishe” che cantavano e servivano il tè, terrificante per le mie gambe! I giapponesi, in media, hanno un torace ampio ma le gambe corte, per quello hanno facilità a sedersi per terra e anche le seggiole sono più basse delle nostre. Anche nelle linee aeree locali, i posti sono molto stretti e qualche volta la “hostess” mi ha sistemato su due posti contigui. Una volta chiesi dove avrebbero fatto sedere un lottatore di “sumo”, la hostess ridendo mi rispose che viaggiano con l’aereo privato!

Ma non è tutto negativo! Mi accordai con il rappresentante per la spedizione di una macchina delle nostre da usarsi come mostra permanente; dopo un anno mi fecero vedere che avevano apportato delle migliorie che mi affrettai a comunicare alla mia Azienda.

Non è facile assuefarsi alle abitudini giapponesi: è un misto tra età feudale, poesia medievale e organizzazione moderna americana. Riunioni a non finire per discutere sul sesso degli angeli, poi inflessibilità nelle regole: il mio “chaperon” aveva  l’obbligo di rientrare ogni sera a Tokyo durante i nostri viaggi perché non gli era permesso dormire fuori, in albergo, a me sarebbe costato 600 dollari al giorno, gli “shinkansen” sono carissimi  per cui forzai la mano e ottenni che dormisse fuori come me.

I miei viaggi in Giappone mi offrirono la grande opportunità di studiare la loro economia e le loro leggi, una cosa è certa, pensano prima di tutto allo Stato, poi a se stessi. Persino la mafia, ossia la “yakuza” è un libro aperto, c’è anche sull’elenco telefonico e mi è stato detto che nelle emergenze collabora con le forze di polizia.

Una volta arrivando a Osaka in aereo dalla Corea mi commossi: innanzi tutto sapevo che l’architetto Renzo Piano, uno dei nostri pochi fiori all’occhiello, che conosco perché abitavamo nella stessa casa, stava costruendo il nuovo aeroporto di Osaka nella baia, ma non sapevo che era finito e inaugurato il giorno prima del mio arrivo. L’aereo si avvicinava a destinazione e invece di tenersi alto per poi virare sulla città come faceva sempre, iniziò ad abbassarsi sul mare, iniziai a preoccuparmi poi, improvvisamente, vidi nel buio della notte e del mare, le luci della pista e l’aereo atterrò. Uscendo, prima di arrivare al controllo passaporti, passai davanti a una “boutique” del “DUTY FREE” e mi trovai davanti agli occhi la maglia del mio Genoa, la bandiera e un pallone, mi misi quasi a piangere, mancavo da casa da più di due mesi, poi mi ricordai che la mia squadra del cuore aveva assunto un giocatore giapponese che abitava a Pegli, vicino a casa mia. Fu una cosa bella!

Una volta mi capitò di assistere alla stazione ferroviaria di Tokyo a una scena che purtroppo mi fece scoppiare a ridere: due signori di una certa importanza, con seguito, s’incontrarono, s’inchinarono e si diedero una craniata! Senza conseguenze per fortuna!

Non vado in Giappone ormai da una decina d’anni, mi auguro che possano risolvere il grande problema della centrale nucleare!

Sandro Emanuelli



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